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Biennale Teatro a Venezia, il corpo dell’attore è resistente
L’edizione diretta da Willem Dafoe ha riportato l’attenzione sulla centralità del lavoro dell’attore. Dai maestri Schechner, Barba e LaCompte ai nuovi protagonisti: da Nikolchev, Castellucci, Milo Rau. Gli spettacoli della seconda parte: Richards, Rantou, Dervisci, Luz e Nubling
VENEZIA _ Chi ha paura del corpo d’attore alla Biennale Teatro 2025? Apparentemente nessuno, eppure… L’evento lagunare, chiusosi nei giorni scorsi dopo due settimane intense di spettacoli, incontri e seminari, diretto dall’attore americano Willem Dafoe, con l’assistenza e lo sguardo di Valentina Alferj e Andrea Porcheddu, per la quantità di energia dispiegata, il livello degli ospiti e la solida intelaiatura progettuale è stato uno di quegli appuntamenti in grado di suscitare interrogativi e influenzare i giorni che verranno. Non solo carrellata di show ma stimolo a domande attorno alla qualità del lavoro d’attore, scrittura e drammaturgia, organizzazione e formazione teatrale.
Risposte sono arrivate da chi come Dafoe ha allestito con i suoi collaboratori l’edizione e gli artisti presenti con le proprie opere. Ma anche da chi ha ritirato l’ambito riconoscimento alla carriera come l’attrice svizzera Ursina Lardi, protagonista dell’opera curata con il regista Milo Rau, “La veggente”, presentata proprio a Venezia (questo reportage è riferito ai giorni dal 10 al 14 giugno ndr).
Nel ricevere il Leone d’Argento alla carriera Lardi è stata tostissima facendo un discorso senza sconti e ben poco consolatorio in cui ha infilato parole pesanti sulla generale situazione teatrale e culturale. Certamente non proprio musica per il ministro della cultura del governo di centro destra, Alessandro Giuli, che l’aveva appena premiata. Parole da meditare.
Intanto: cosa ha di diverso, rispetto ad altri questo premio? “Il valore di una cosa -dice Ursina Lardi– si coglie davvero soltanto quando quella cosa è minacciata. Questa minaccia non riguarda me stessa ma ciò che questo premio rappresenta: il rispetto e la stima per l’arte. Soprattutto in tempi come questi, con le destre estreme e libertarie ma anche con forze conservatrici più moderate che continuano a smantellare e annientare non solo i finanziamenti e le infrastrutture, ma le condizioni stesse che rendono possibile l’arte, fare teatro è diventato, di per sé, un atto politico”.
Un giornalista giorni fa le ha detto che “del teatro si parla sempre meno, e sempre più a fatica”. L’attenzione dei media in effetti si è ridotta progressivamente silenziando festival e rassegne dedicati alla scena.
Riflette Lardi: “non è soltanto una questione di tagli: non vengono meno solo i finanziamenti, ma anche il rispetto e la considerazione per chi fa cultura”. Tornano alla memoria giorni lontani nel momento in cui “veniamo ridicolizzati, dichiarati inutili, superflui e innocui. E questo mi ferisce più di ogni censura, più di qualsiasi forma di pressione…”.“… la classe politica entra in scena a gambe larghe, brutale, virile fino al
grottesco, quasi primordiale, disumana. L’impatto è enorme. Paura, terrore, ogni giorno, e quel tintinnio di sciabole che risuona dappertutto. E dappertutto risposte semplici a domande complesse”. Questa è la situazione in diverse parti d’Europa. C’è in effetti “una sua logica se oggi è politicamente in voga banalizzarci e tentare di prosciugarci” incalza l’attrice. Da qui l’appello all’unità per teatranti e quanti operano nella cultura a “stringersi in solidarietà” opponendosi a chi vuole mettere gli uni contro gli altri nella gara per la distribuzione delle risorse. Infine un monito. “Dobbiamo confrontarci – sul palcoscenico e fuori – con tutte le questioni urgenti che la nostra contemporaneità ci impone, ma non dobbiamo ridurci a un semplice riflesso delle decisioni politiche- questo potere su di noi non dobbiamo concederlo”.
Concetti chiari che rimbomberanno dentro le coscienze.
La Biennale ha offerto così il pregio di ricordare da dove nasce l’onda creativa del contemporaneo mettendo a nudo limiti e carenze della nostra scena. Dalla scarsa conoscenza dell’uso del corpo alla drammaturgia. Non si studia abbastanza e la formazione è insufficiente. In questo modo non si cura con la dovuta attenzione la crescita di attori, futuri registi e autori e pure una indispensabile formazione del pubblico. Desolatamente assente è poi una presa di coscienza collettiva in grado di rivendicare una riforma del comparto capace di fermare il circo di artisti che gira per assessorati e centri di potere con il cappello in mano.
Biennale Teatro 2025 ha fatto per questo una operazione di chiarezza minima ed indispensabile. Tornare ai fondamentali. Ma non per rifare il Performance Group o il Living, riscoprendo Eugenio Barba, Jerzy Grotowski o Richard Schekner, che non dovrebbero essere mai derubricati a momento storico ma, al contrario, patrimonio vivo e attuale, da conoscere e studiare. Dove ritrovare cioè nuova linfa e il filo rosso della ricerca e della sperimentazione. Ma anche per evitare di cadere in errori già fatti e trovare originali strade espressive più in sintonia con i nostri tempi. A segnare il cammino in questa edizione è stato il motto del direttore artistico: “Theatre is Body- Body is Poetry” (Il Teatro è corpo, il Corpo è Poesia”).
Presentando la rassegna Willem Dafoe, dopo aver ricordato di essere un attore, ha dichiarato così la sua intenzione nel programmare l’edizione: “un’indagine sull’essenza dell’attore e sulla presenza del corpo”. L’intelligenza del corpo come elemento di “resistenza umana”.
E più avanti: “L’idea non è quella di sostenere affermazioni o dare istruzioni, ma di sollevare domande che non hanno necessariamente risposte. Interrogarsi sul ruolo del corpo dell’artista nel teatro. Esplorare la forma, la precisione e la disciplina dell’azione teatrale, che è sempre identica e, al tempo stesso, irripetibile. Questa per me è la bellezza del rito teatrale”. D‘altra parte “Il teatro è una forma di conoscenza in cui la presenza dell’attore dialoga con quella del pubblico. Senza il corpo dello spettatore, l’azione dell’attore non esiste”. E “La funzione politico-sociale del teatro è un rituale che riunisce le persone in una comunità istantanea che si materializza per un determinato evento”.
Il corpo è poesia. “poesia” dal greco “poièo” vuole dire fare o produrre, mentre la parole “attore” viene dal latino e significa “colui che agisce”. Così spiega ancora Willem Dafoe:“La poesia è quindi un qualcosa di realizzato da qualcuno che fa. La poesia pone domande” mentre la letteratura cerca dare le risposte. Quindi: “Le parole, nell’essenza del corpo, lasciano una traccia che colpisce lo spazio, l’universo. Il corpo è saggio: se gli si dà un verso, te lo restituisce filtrato attraverso la complessa organicità del corpo. Il corpo è il cuore pulsante del teatro”.
In soccorso a questo impianto, e a dimostrazione di come il corpo sia uno dei temi centrali della nostra società contemporanea, viene, a Venezia, per singolare coincidenza, una esposizione curata da Giulio Manieri Elia, Guido Beltramini e Francesca Borgo allestita in concomitanza nelle Gallerie dell’Accademia e che studia il corpo umano. “Corpi moderni. La costruzione del corpo nella Venezia del Rinascimento” corredato da opere di Leonardo, Michelangelo, Giorgione e Durer, un’indagine sulla concezione del corpo umano tra arte, scienza e cultura materiale. Il corpo come campo di indagine scientifica, oggetto di desiderio e mezzo espressione di sé. Uno dei punti interessanti e da mettere in relazione è quello della rappresentazione.
E’ in questa epoca, come evidenzia l’esposizione, che il corpo, esce dal perimetro della biologia reclamando il proprio legame con la vita di tutti i giorni, individuale e collettiva. Gli artisti del Rinascimento raccolgono la sfida di un corpo che “è ovunque”, come sottolinea la curatrice Francesca Borgo nel suo saggio all’interno del catalogo. Il corpo, dichiara, è “fuori nella vita, disciplinato da manuali di comportamento e cura di sé e dentro le immagini. Tutti ne hanno uno, tutti lo disegnano e tutti si chiedono incessantemente come meglio raffigurarlo: perché trasformare il corpo in figura rimane, oggi come allora, un affare rischioso, un esercizio che si porta dietro inevitabilmente grosse domande sulla bellezza – cosa sia, se sia rappresentabile, se sia o meno lo scopo dell’arte”.
In questa imperdibile esposizione costituita da novanta opere è mostrato al pubblico in via eccezionale anche l’Uomo Vitruviano di Leonardo in cui le due diverse posizioni dell’uomo ritratto dal genio di Vinci suggeriscono una messa in scena. La postura e il movimento delle braccia e delle gambe verso l’esterno e, allo stesso tempo, la sua centralità, indicano teatralità. Certo, Leonardo non pensava al teatro, ma è il corpo stesso dell’uomo Vitruviano a suggerirla.
Una interessante curiosità che intreccia quotidianità, teatralità e arte, suggerita ancora dalla mostra dell’Accademia. A Murano nasce lo strumento con cui da sempre ci si conosce: lo specchio di vetro, “una innovazione tecnologica di cui Venezia conserva gelosamente monopolio per anni. La miniatura nella biografia di Marzia, unica pittrice antica celebrata da Giovanni Boccaccio, la raffigura mentre, guardandosi allo specchio dipinge il proprio autoritratto, ma sembra truccarsi. I testi rinascimentali riconoscevano pittura e cosmesi come attività parallele, fondate sull’artificio e sull’illusione”.
Attraverso la lente d’ingrandimento del Rinascimento, questa esposizione insomma parla di noi nel momento in cui inizia a “svelare” il corpo, portando l’indagine scientifica sotto la pelle, e insieme a “velarlo”, allontanandosi da quello che siamo come dato biologico, per fare di noi stessi una costruzione, un atto recitato”.
Tante e imprevedibili insomma le relazioni tra corpo e teatro, corpo e poesia come alcuni degli spettacoli in programma negli spazi dell’Arsenale, ma non solo, hanno mostrato. Nella prima parte della rassegna, dal 31 maggio all’8 giugno sono stati il Wooster Group con “Symphony of Rats” diretto da Elisabeth LaCompte premiata con il Leone d’oro alla carriera, Yana Eva Thonnes con “Call me Paris”, l’Odin Teatret di Eugenio Barba con “Le nuvole di Amleto”, Davide Iodice con il suo “Pinocchio. Che cos’è una persona?”,con “Giovanna d’ArpPo”, la lectio magistralis di Richard Schechner, la poesia di Bob Holman, il progetto diretto da Antonio Latella e l’Accademia Silvio D’Amico “www.wordrorldwar.bomb”, Richard Foreman in “No Title”, la Talking poetry di Bob Holman, Thomas Ostermeier con “Changes”. E veniamo alla seconda parte.
Anthony Nikolchev
Una potente dimostrazione sulle tematiche del corpo d’attore arriva con la prima mondiale di “The (Un)Double” del collettivo americano Useless Room, testo e regia di Anthony Nikolchev (In collaborazione con Gema Galiana) in scena con Lukasz Przytarski, Chris Polick: tutti di bella tempra. Ripreso dal “Sosia”, romanzo di Fedor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta su una rivista nel 1846 (edizione definitiva 1865-1866) “The (Un)Double” di Nikolchev, esponente del nuovo teatro di ricerca americano, formatosi al Workcenter di Grotowski, va oltre la mera lettura o adattamento del romanzo, tenendo la vicenda dell’”eroe” (come lo definiva Dostoevskij) Jakov Petrovic Golyadkin, come traccia principale intersecante con altre piste che rimandano alla complessità del doppleganger: dal narcisismo alle esperienze extracorporee descritte da Carl Gustav Jung, un tema assai utilizzato in letteratura: vedi “Il caso di Dr Jeckyll e Mr Hide” di Robert Louis Stevenson, “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde o il racconto “William Wilson” di Edgar Allan Poe etc… In “(Un)Double” il vero protagonista, seguendo il tema dei questa edizione, è proprio il corpo. Questo si sdoppia e il protagonista diventa altro da sé. Al centro della scena troneggia una costruzione a forma di cubo: nei quattro lati aperture ampie per vedere ciò che accade all’interno. Due monitor televisivi. Lo spettacolo entra immediatamente in medias res. Tutto cioè è avvenuto o in corso. Il consigliere Jakov Petrovic Golyadkin viene preso in carico dall’ospedale psichiatrico. La sua deriva, iniziata una mattina nella casa di San Pietroburgo è riassunta per flashes. Meglio ancora: evocata per piccole situazioni mentre si manifesta il sosia e di conseguenza il relativo deteriorarsi della sua salute mentale.
Dal monitor tivù: “…per tutto il tempo, immagina la vita che dovrebbe vivere, e parla di qualcun altro nella stanza che vive quella vita, e dice alla gente che quello sono io, e che non dovrebbe essere celebrato. Ma quella persona non esiste nemmeno….”
Il “doppio” appare subito come un deficit patologico. Un problema di sofferenza che rispecchia molta realtà contemporanea. La narrazione si stratifica, dalla citazione al racconto attraverso il movimento, concitato e coinvolgente dei corpi, come se si mostrassero dentro un caleidoscopio. Gli attori mimano le diverse personalità, azzerando e immaginando altre identità. Simile a quanto accade negli specchi dei circhi: il corpo si deforma, diventa altissimo oppure rimpicciolisce. Il doppio e il suo contrario. Siamo al Pirandello di “Uno, nessuno, centomila”. Accanto all’acting degli attori che misurano lo spazio ristretto del cubo colorato di luci in rosso c’è un parallelo sentiero filosofico che insegue il doppleganger. Un doppio che attiva percorsi di violenza estrema riportando il vissuto fuori dal perimetro narrativo dostoevskiano per evocare un criminale di guerra come il serbo bosniaco Radovan Karadzic condannato per crimini contro l’umanità (responsabile dell’assedio di Serajevo, oltre ottomila trucidati nella strage di Sebrenica). Karadzic allora presidente della repubblica serbo bosniaca riuscì a sfuggire per dodici anni alla cattura dandosi un’altra identità (più che un sosia, un alias: Dragan David Dabic). In “(Un) Double” il criminale serbo viene ricordato per avere ispirato il responsabile della strage di Christchurch del 2019 in Nuova Zelanda: cinquantuno persone trucidate in due diverse moschee.
Progetto Wordworldwar coordinato da Antonio Latella.
Thom Luz (“Evviva…non ho detto niente!”)
Sebastian Nubling (GRRRR)
Danil Charms in Biennale. Ma chi lo conosce? Pochi davvero. Eppure è stato uno dei maggiori scrittori e poeti russi del Novecento. Daniil Ivanovic Charms (pseudonimo di Juvacev) questo è il suo nome per intero, nasce dieci anni prima della Rivoluzione d’Ottobre, il 1905 a San Pietroburgo e nel 1941, dopo essere stato arrestato dalla polizia di Stalin muore lo stesso anno in una clinica psichiatrica nella sua stessa città nel frattempo diventata Leningrado. Era stato accusato di essere “antisovietico” per i suoi scritti Alla caduta di Stalin si scopriranno i suoi scritti. In Italia Adelphi pubblicherà nel 1990 il suo “Casi” e diversi i libri saranno pubblicati da Paolo Nori (“Disastri”presso Marcos y Marcos e “L’uomo che sapeva fare miracoli”, Saggiatore) che conosce a fondo l’opera di Charms e ha tradotto molte poesie di questo straordinario autore. Charms è un autore geniale e incompreso allo stesso tempo. Scrittore per infanzia ma anche e soprattutto autore di liriche coinvolgenti. Umorismo nero e piacere per l’assurdo. Nella prefazione di“Incendio”, a cura di Simonetta De Bartolo, Nori l’ha definito “reale e surrealistico insieme” come poteva apparire in quegli anni Trenta la vita in Unione Sovietica. E ha affermato inoltre che a questo scrittore russo vada riconosciuto come inventore della “letteratura dell’assurdo prima della letteratura dell’assurdo, vent’anni prima di Beckett e Ionesco”.
A riprendere come materiale di ispirazione la sua opera è stato il teatrante svizzero Thom Luz che. con il musicista Peter Conradin Zumthor, responsabile della direzione musicale, e sei allievi del secondo corso dell’Accademia Silvio D’Amico (Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin) ha messo in scena il sorprendente “Evviva! Non ho detto niente!” (Hurrà! I Didn’t Say Anything”), un effervescente spettacolo-cabaret segnato da una scoppiettante inventiva e un ritmo musicale che sostiene l’opera, dall’inizio alla fine senza cedimenti. I giovani attori efficacemente diretti non perdono botta, indossando e dismettendo i panni di attori-musicisti, Circola ironia e trascinante energia da anni Settanta con gli attori protagonisti di dialoghi assurdi, fulminanti botta e risposta : “Dove sei?”, “Sono io!”; “Chi?”, “Cosa fai qui?”, “Sto suonando”… e suonano. Suonano davvero. E’ lo stesso Zumthor a condurre le danze e segnare il ritmo. Ed ecco magicamente comparire delle bacchette che servono a degli improvvisati drummer. Nella scena si entra e si scappa velocemente. Tutti assieme. E tutti assieme si posizionano in modo geometrico, spostando tavoli, sedie… E si suona. Spuntano trombe nere e all’unisono si eseguono le note dell’inno di Mameli. Stupisce un improvviso e total drumming percussivo come sferzata di aria fresca, mentre i giovani attori ci danno dentro con felice entusiasmo disegnando sulla scena macchiette nere che corrono, si infervorano, si lanciano in una surreale e pazzesca girandola di passi ritmici. E da due diversi giradischi si levano le note differite dell’”Ave Maria”. Le stesse note si inseguono in uno slittamento temporale di pochi secondi. Le une dietro le altre. Fedeli a Daniil Charms: “il teatro deve calmare i confusi di questo mondo e confondere i calmi di questo mondo”.
Questo spettacolo fa parte di 5 allestimenti supervisionati da Antonio Latella nell’ambito del progetto www.wordworldwar.bomb, un progetto dell’Accademia Silvio D’Amico e fa cui proviene lo stesso gruppo di promettenti giovani attori del secondo anno del Corso di diploma accademico di II livello in Recitazione.
L’altra messa in scena visionata alla Biennale è stata “Grrrr”. Per lo stesso gruppo di attori direzione affidata all’accoppiata formata dal regista Sebastian Nubling molto attivo in area germanica e la compositrice sperimentale Jackie Poloni conosciuta nella scena elettronica internazionale, Nubling autore di diverse regie liriche, ha sempre lavorato con la musica. E’ stato cofondatore, nonché musicista e attore del gruppo Theater Mahagoni e ha numerose collaborazioni attive (Dal Maxim Gorki Theater di Berlino allo Schauspielhaus). Lo spettacolo mostrato a Venezia, (completamente differente da “Evviva non ho detto niente!”) fotografa gli attori mentre attraversano la scena accompagnati da un martello sonoro. E’ un continuo andare avanti e indietro sul palcoscenico misurato con ampie falcate. Atletico e muscolare come fosse una sorta di training finalizzato alla concentrazione. Emergono da questo regolare movimento dei corpi, delle voci inneggianti all’Italia. I movimenti sono precisi e coordinati, tenuti ritmicamente su un registro di velocità sostenuta. Il gruppo degli attori è compatto e concentrato come se stesse per raggiungere un risultato vagando con netta determinazione in uno spazio essenzialmente nudo come fosse una pattuglia in perlustrazione o semplicemente in cerca. Tutto avviene velocemente. Non c’è un obiettivo da colpire o una verità da sciogliere. Nè tanto meno, una storia da raccontare. Solo un lungo e continuo flusso di energia con i corpi degli attori protesi e finalizzati a raggiungere una comune intesa.
Evangelia Rantou/Mary Rantou
Non c’è un prima e un dopo in “Mountains” spettacolo della danzatrice greca Evangelia Rantou (in collaborazione con la sorella Mary), ma lo scorrere di una ricerca in progress sulle radici comuni dell’esistenza. Il passato e il futuro come spazi da esplorare e riconoscere cercando possibili punti di connessione. Evangelia Rantou è anche l’unica a portare nel cuore del cartellone della Biennale Teatro una dimostrazione del valore e dell’interesse della danza contemporanea che costruisce e mantiene una attenzione viva nei confronti della scena teatrale. Il lavoro di Evangelia è un insieme di flash back a ritroso, alla ricerca di paesaggi dimenticati della memoria. Scavo archeologico delle radici che ha nelle pietre il primo totem ancestrale. Pietre evocanti la cultura dei megalitici e dei dolmen ma anche gli anfiteatri all’aperto. La danzatrice originaria di Corfù, carriera segnata da importanti collaborazioni con coreografi e autori teatrali come Dimitris Papaioannou, Robert Wilson, Lucinda Childs, Yorgos Lanthimos e Athina Tsangari, ama l’intesa tra diversi linguaggi artistici e la danza. Corpo statuario e seducenti lineamenti mediterranei, allestisce una continua esplorazione sulle forme di espressione poetica del proprio corpo. Muovendosi con eleganza nello spazio disegna un percorso fatto di brevi stazioni di un viaggio dove ogni differente sasso è rifugio e punto di ripartenza. Nel suo vagabondare simile a un percorso metafisico riprende miti perduti, da quello del Prometeo incatenato a Sisifo. E’ l’uomo a costruire i miti come la storia e la Rantou riflettendo su questo e sull’umanità si pone delle domande. “Se il passato è scolpito in noi, come lo usiamo? Non come zavorra che ci tiene ancorati, ma come forza che ci spinge in avanti? In che modo il corpo diventa un ponte tra la memoria e il divenire?”
Il corpo diviene così il mezzo, lo strumento giusto per ricordare, ricostruire… Una mappa in cui, come accade nel Dna tutto è già scritto ed è stato via via, nel tempo, raccolto. Memorizzato. Ed è proprio lì che si deve cercare, dentro se stessi per ritrovare il filo perduto.
Ogni vicenda, ogni evento, ogni frammento di vita consumata nei secoli hanno lasciato traccia nei nostri corpi. Come da tempo ha mostrato nelle sue originali perlustrazioni la solida danzatrice e coreografa Paola Bianchi: sia in una ex fabbrica di Bata in Francia aBataville Moussey che al Tubettificio Ligure, chiuso da anni a Genova dove l’artista ha compiuto “uno scavo negli archivi mnemonico-corporei di lavoratori e lavoratrici di diverse generazioni, un’indagine sui corpi del lavoro. Il corpo agisce e subisce, il corpo si trasforma. Ed è proprio quella trasformazione il punto centrale dell’indagine”. Per Paola Bianchi, intellettuale ispirata che si muove tra arte, teatro e filosofia occorre fare tesoro della memoria imparando ad ascoltare i sussulti di un muscolo, leggerndo la cicatrice che segna un angolo nel costato o una ruga come un filamento elettrico incisa su un’altra parte di quell’archivio vivente che portiamo con noi. E’ lì che dobbiamo apprendere di nuovo a leggere noi stessi e il nostro tempo.
“Il corpo possiede un’intelligenza, una memoria che va oltre la verbalizzazione. Pensare significa anche avere un corpo in rapporto dinamico con l’ambiente e molte categorie del pensiero sono rappresentazioni mentali di stati della corporeità. La ragione è resa possibile dal corpo, cioè il nucleo del nostro sistema concettuale ha origine nella natura strutturata dell’esperienza corporea -per citare Lakoff” (Da “Corpo Politico” di Paola Bianchi, 2014).
Romeo Castellucci
Castellucci predilige spazi che portano le stimmate della storia. Per “I Mangiatori di patate” programmato ogni pomeriggio dal primo all’ultimo giorno della Biennale Teatro, il teatrante di Cesena ha scelto un’isola della laguna carica di significati come è quella del Vecchio Lazzaretto. Un complesso formato da diversi edifici edificato con mattoni rossi che si sviluppa per tutta l’area, e dove hanno tirato su mura impenetrabili che non hanno lasciato libero neanche un fazzoletto di terra. Per la sua opera Castellucci ha utilizzato alcuni padiglioni restaurati (anche se non del tutto) spazi in cui gli spettatori sono invitati ad addentrarsi toccando con mano un luogo ancora impregnato dal dolore. Un senso d’inquietudine accompagna lo spettatore per tutta la visione trasportandolo in una dimensione sconosciuta. Anche perché “Mangiatori di patate” non è teatro o performance in senso stretto, pure se è imparentata con entrambi, ma poesia. Forma originale che non scandisce versi ma cuce assieme visioni di un regime distopico e oscuro. Sia rimandando al quadro di Van Gogh, ricordo di un tempo di miseria e lavoro che le diverse epidemie di fame e carestia abbattutesi in Europa come i giorni neri della guerra vicino casa. Camminando nei corridoi ampi e spogli di terra battuta si avverte tensione e disagio.
La luce esce solo a sprazzi, piccoli squarci improvvisi che illuminano bozzoli di materia vivente, corpi rinchiusi all’interno di teloni di plastica nera che, agonizzanti, rotolano su di loro. Volute di polvere si sollevano al passaggio nella terra battuta. Spira un vento forte: in lontananza si vede sfocata, una pattuglia di uomini in nero, minatori o guardiani di uno spazio perduto. Pulsa bassi profondi la musica di Gibbons per una volta contenuto, quasi in castigo. Un attimo prima dalla nebbia si intravede un imponente Angelo nero. Appare e scompare. L’Angelo della Storia tornerà alla fine ma senza più la testa. Immagine di tempi dolorosi che, dopo le pandemie, offrono solo conflitti e distruzioni. Da uno dei contenitori di plastica spunta un corpo imbiancato di donna che neanche quel frammento di luce aperto sul buio più nero farà risorgere. Solo la voce resterà. Metallica, senza accenti. Artefatta, come fosse scappata da un laboratorio di Mengele. La sequenza è un affondo disincantato dentro i misfatti della società contemporanea. Ne mostra l’umana follia che tramuta tutto in violenza e genera sconquassi. Fino a cancellare la libertà.
Thomas Richards
Grotowski, dopo Grotowski. Come si può continuare a scavare il solco di una ricerca anche quando il Maestro non c’è più? Nell’intervista rilasciata a J.P.Thibaudat, nel luglio del 1995 il Maestro di Wroclaw disse : “Ciò che resterà dopo di me non può essere nell’ordine dell’imitazione ma del superamento. Nello stesso modo, io non ho imitato Stanislavskij, ho cercato quello che era possibile dopo. Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. È una faccenda di parecchie generazioni”. E così è stato. Dopo aver co-diretto assieme il Workcenter dal 1996, Thomas Richards ha continuato l’opera del Maestro alla scomparsa di quest’ultimo nel 1999. Il centro resterà in attività sino al 2022, fino a quando Toscana Culture decide di tagliare i fondi della ricerca teatrale.
Ed è sulle orme del Maestro che Thomas Richards è approdato a Venezia con il Theatre no Theatre per presentare “Inanna”, racconto di una importante figura mitologica sumera, archetipo della femminilità. Divinità tra le più importanti del Pantheon di quella civiltà antica era venerata come dea dell’amore, della fertilità e della guerra. Ma, come racconta il mito, è anche una figura di forte umanità “riflesso della eterna ricerca del sé, dell’evoluzione interiore nonchè della ricerca dell’interezza in un mondo di dualità”.
Giocando sul filo tra tradizione e innovazione, passato e presente e formazione grotowskiana nell’incontro con il pubblico veneziano, per la bravura degli attori e di Richards il tutto è apparso un po’ a mezza strada tra la dimostrazione di lavoro, sulla scorta di antiche referenze e memoria, e, allo stesso tempo un atto di ricerca degli stessi attorno al mito. Il fatto di forte interesse, soprattutto per gli addetti ai lavori, è stato assistere alla capacità degli attori di andare oltre la linea della rappresentazione, scavando dentro se stessi e restituendo emozioni a prescindere dalle azioni. Così ad esempio incanta ascoltare il canto corale degli attori su tappeti di musica caraibica, come quello in solitario della coreana Hyun Ju Baek, oppure in dialetto napoletano, l’affabulazione del formidabile attore Fabio Pagano. Ma sono tutti assolutamente da ammirare per il lavoro mostrato anche gli altri attori: Ettore Brocca, Kei Franklin, Alejandro Linares, Jessica Losilla Hébrail. Un gruppo eterogeneo, fatto di personalità assai differenti eppure capaci, sotto la guida di Richards, di presentarsi come un corpo unico.
Milo Rau
L’occhio della telecamera resta fisso. Nel grande schermo centrale, che funge da fondale, si vede una landa desolata, un’area desertica che continua anche al di qua dello schermo, sul palcoscenico. Stesso arido landscape. Sabbia, copertoni, erba secca. Sul video si percepisce in lontananza una colonna di fumo nero. E’ Troia che brucia. Molte opere di Milo Rau hanno un doppio reverse con il mito e la tragedia greca e anche questo “Die Seherin” o “La Veggente”, presentato a Venezia non sfugge. Si accenna a Filottete abbandonato dai suoi compagni nell’isola di Lemnos e dove, dieci anni dopo Neottolemo, figlio d‘Achille, lo andrà a cercare perché Troia cadrà solo per mano di un arciere come Filottete. Sullo schermo è un puntino che avanza fino ad occupare lo spazio: un faccione scuro e due occhi grandi da cerbiatto. E’ Hassan Azad. Originario di Ninive, commerciante di farina che a Mosul finisce nelle mira di Daesh. Anno 2014. E’ questo il tempo in cui i fascisti dell’Isis hanno preso possesso di vaste porzioni dell’Iraq e installato il loro Califfato islamico con esecuzioni di massa, processi sommari e vendette. Hassan, che ora fa l’insegnante, racconta con parole piane come i jihadisti le mozzarono la mano destra. E mostrerà il moncherino che per quasi tutta la registrazione aveva tenuto dentro la tasca del giubbotto.
Al di qua, ad aver evocato Filottete/Hassan è stata la bellissima Ursina Lardi, fotografa di guerra che seduta su un copertone continua a sfogliare il cellulare. Fin da giovane, una maledetta ossessione: era continuamente attirata dalle immagini di guerra. Mentre al microfono raccontava le esperienze vissute inizia a incidere con una lama il proprio polpaccio fino a perdere sangue…
E narra di come, volando da uno scenario di guerra all’altro, ogni suo scatto di fotoreporter corrispondesse fosse simile a uno sparo, un drammatico annuncio di quello che sarebbe accaduto. Premonizioni di una “Veggente”come fu Cassandra che, dopo essere stata stuprata fu portata via da Agamennone a Micenee dove morrà per mano di Clitennestra ed Egidio. Ursina Lardi è diventata così una Cassandra dei nostri giorni. Da testimone a vittima, racconta con lucida rabbia i giorni della primavera araba del 2011 a Tahrir e, con crudezza, lo stupro subito.
Il teatro di Rau sembra avere sempre più bisogno di cinema con le immagini che rimbalzano da uno schermo al palcoscenico. Molto vicino a un docu-dramma “Die Seherin” mantiene comunque tutta la statica fissità di una tragedia antica lasciando ampio spazio alla bravura attorale di Ursina Lardi.
Come pochi oggi, Rau, ha la capacità di fotografare in modo dettagliato la nostra contemporaneità, la violenza che diventa sopraffazione, negazione delle libertà. In questo caso ha congelato il tempo, spostando le lancette per unire i giorni dell’ira a quelli del ricordo. Iraq all’epoca dell’Isis e quella di Troia. Unisce Filottete e Cassandra. Quest’ultima condannata a vedere la tragedia un attimo prima che accada. Hassan Azadpossiede compostezza e atteggiamento epici. Il dialogo è serrato tra i due. Milo Rau e Ursina Lardi sono andati dove le ferite sono ancora aperte, per indagare e conoscere verità scomode. Ed è in un incrocio di strada qualunque di Mosul, popolato da bancarelle, che Hassan venne privato della mano. Tutto venne filmato e finì su You Tube. Come altre giustizie sommarie. Atroci pagine di violenza filmate e mandate in rete dai miliziani di Daesh. Come quella inferta ad Hassan e che lui stesso ha recuperato in video.
“Die Seherin”mostra così il lungo e difficile lavoro di reportage e di ricerca etnografica di Rau e Lardi che hanno indagato sul campo prendendo posizione. La fotografa/veggente è testimone per eccellenza della guerra. Ogni suo clic è una esplosione, un proiettile che viaggia nel buio della notte e deflagra con rumore assordante tale da non lasciare speranza. E’ una donna sola che è stata violentata e sfregiata. Un destino parallelo a quello di Azad: assieme camminano sullo stesso tragico sentiero. Il flusso del racconto apre stazioni di dolore indicando colpe e responsabilità. Ursina ha uno sguardo fiero e resistente. Hassan, profondo e compassionevole. Il filo tra i due è forte come l’acciaio. Mentre il nostro sguardo contempla smarrito il vuoto dei nostri giorni.
Istambul Historical Turkish Music Ensemble
Tra la Terra e il Cielo. Nell’ampio salone degli Squadratori nel Museo della Marina Militare l’incontro unico, affascinante e profumato di misticismo tra il pubblico della Biennale Teatro e la compagine dell’Istambul Historical Turkish Music Ensemble. Un’ora di straordinaria e intima condivisione tra chi assiste e chi invece sul palco è impegnato in una cerimonia antica e tuttora praticata con totale coinvolgimento dai musicisti e i danzatori dervisci. La scena che ospita la cerimonia Sema è spoglia ed essenziale. Sul fondo prende posto l’organico di dodici tra musicisti e cantanti (percussioni: Enes Durceylan, Mehmet Salih Sırmaçekiç, Soydan Babayiğit, voce: Enes Üstün, Habib Alparslan Tabak, Süleyman Veliyettin Yılmaz, ney: Hüseyin Avni Özaydın, oud: Hasan Hekimoğlu, kemençe: Mehmet Ömer Aşcıoğlu, qanun: Mustafa Tabak). Alla sinistra del palco è stata deposta una pelle di pecora tinta di rosso , “post”, mentre al centro sono state sistemate a semicerchio delle pelli di pecora bianche per i danzatori. La cerimonia Sema dei Mevlevi si apre con una pagina di musica turca che introduce i danzatori (Adem Demirel, Haluk Luş, Mahmud Sami Güçlü, Muharrem Burak Ecevit, İbrahim Safa Alçın, Sabahattin Harma). La cerimonia Sema rappresenta un viaggio mistico di ascesa spirituale dell’uomo attraverso la mente e l’amore verso la Perfezione. Mentre i danzatori, uno per volta accedono nella scena e, dopo aver salutato il “post”, si sistemano davanti ai musicisti. I danzatori, in segno di umiltà tengono le braccia incrociate sul petto con la mano sinistra sulla spalla destra e la mano destra sulla spalla sinistra.
In totale silenzio il pubblico segue con gli occhi ogni movimento, parte di un antico rituale. Figura chiave è quella dello “Shaikh” che raggiunto il “post” dà il via alla cerimonia. La scena è idealmente divisa in due. A destra si intende la discesa verso il mondo materiale, a sinistra l’ascesa al mondo spirituale, Si recita una breve preghiera dedicata al profeta Maometto e l’antico flauto in canna, il “nay”, usato in grande parte del Mediterraneo, introduce una parte strumentale: “peshrev”. Shaikh e danzatori si inchinano al pavimento che viene colpito con le mani e alzatisi in piedi percorrono per tre volte lo spazio scenico. Da questo momento inizia la danza vera e propria. I danzatori, abbandonati i loro mantelli, in testa dei zuccotti beige, tunica e gonna bianca. Dopo aver salutato lo Shaik iniziano a ruotare attorno a se stessi, mentre la musica è prima nenia e poi canto. Le gonne bianche si muovono verso l’alto formando delle campane mentre i danzatori, in modo simmetrico, sollevano in aria le braccia. La musica ha un andamento ipnotico e iterativo che sembra sostenere il fragile equilibrio dei danzatori rotanti. Sono come fossero dei pianeti vaganti nel cielo. Si sfiorano appena, mentre la danza si fa più frenetica, ma miracolosamente, non si toccano. Per piccole frazioni di tempo la sensazione è che pubblico, danzatori e musicisti siano diventati un corpo unico. Un fluire di energia raro, appena palpabile nell’aria. La danza riprende più volte. I danzatori girano e, contemporaneamente, percorrono lo spazio in modo circolare. In alcuni si coglie una espressione serena e distesa, in altri addirittura estasiata. La musica e le voci profonde dei cantanti accompagnano e sembrano volare anche loro con le gonne dei dervisci. E’ un attimo di incantamento che ciascuno serberà nel proprio cuore come ricordo. E’ trascorsa quasi un’ora senza avere avuto la percezione esatta del tempo che passava. Lo Shaikh si inchina ai musicisti e ai danzatori che, dopo aver salutato il “post” , lasciano la sala in modo ordinato, uno dietro l’altro. In silenzio.
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