Filosofia
Lettera a Giorgio Agamben
Una lettera a Giorgio Agamben sul punto in cui il pensiero critico incontra il limite della vulnerabilità. Quando le categorie non bastano più e la realtà, fatta di corpi, paura e lutto, chiede non solo smascheramento ma prossimità, cura e responsabilità.
Ti scrivo da un luogo che viene dopo il dissenso e dopo l’adesione. Da un punto in cui la critica, anche quando è giusta, non basta più a dire ciò che è accaduto.
Il tuo pensiero ha insegnato a molti di noi che il potere non agisce solo imponendo, ma separando. Separando la vita dalla sua forma. Riducendo l’esistenza a gestione. Trasformando l’eccezione in metodo. È stato uno sguardo potente, capace di vedere dove altri vedevano solo amministrazione.
Poi è arrivato un tempo in cui quella griglia ha cominciato a incrinarsi. Non perché fosse falsa, ma perché non era più sufficiente. La vita non chiedeva soltanto di essere smascherata, ma anche protetta. La categoria dell’eccezione non spiegava più tutto, e la realtà ha iniziato a eccedere gli strumenti con cui cercavamo di leggerla.
Non ti scrivo per discutere ciò che hai detto. Quello è già accaduto, troppe volte, spesso male. Ti scrivo per interrogare ciò che resta quando un pensiero radicale incontra un limite che non aveva previsto. Quando le categorie che hanno illuminato il potere mostrano la loro fatica davanti alla fragilità concreta dei corpi.
Il punto, per me, non è stabilire chi avesse ragione. Il punto è chiedersi che cosa accade a un pensiero quando il suo rigore rischia di diventare indifferenza. Quando la lucidità analitica non riesce più a distinguere tra smascheramento e distanza. Quando la critica, spinta fino in fondo, rischia di perdere il contatto con ciò che voleva difendere.
Te lo dico senza accuse, ma senza alibi: mentre una persona a me cara perdeva il padre, la tua voce continuava a vedere dispositivi, e lì ho sentito che il tuo pensiero, per la prima volta, era fuori dalla realtà.
Il tuo lavoro ha sempre mostrato che la vita, quando viene ridotta a oggetto di governo, perde la sua forma. Ma c’è un momento in cui la vita chiede anche cura, responsabilità, prossimità. Un momento in cui la denuncia dell’apparato non esaurisce la domanda che viene dai corpi esposti, vulnerabili, dipendenti gli uni dagli altri.
Forse è qui che il pensiero incontra la sua prova più dura. Non quando viene contraddetto, ma quando deve riconoscere che non tutto ciò che è reale può essere letto come dispositivo. Che non ogni gesto di protezione coincide con un atto di dominio. Che non ogni obbedienza è già assoggettamento.
Non ti scrivo per chiederti una correzione. Ti scrivo perché il tuo percorso mostra, come pochi altri, il prezzo che si paga quando si rifiuta di addomesticare il pensiero per renderlo accettabile. La solitudine che ne deriva. L’incomprensione. La semplificazione violenta che il dibattito pubblico infligge a chi non si presta.
Ma ti scrivo anche perché credo che oggi la radicalità non consista nel portare le categorie fino alle estreme conseguenze, bensì nel riconoscere quando esse non bastano più. Nel sostare in quel punto scomodo in cui il pensiero deve accettare di essere ferito dalla realtà che incontra.
Forse il nodo non è scegliere tra libertà e protezione, tra critica e cura. Forse il nodo è abitare la loro tensione senza risolverla. Senza trasformarla in schema. Senza chiudere ciò che resta aperto.
Il tuo pensiero ha insegnato a molti di noi a diffidare delle soluzioni. Oggi, forse, la sfida è diffidare anche delle diagnosi che non sanno più farsi carico della vulnerabilità che attraversa il mondo.
Ti scrivo per questo. Non per chiederti di tornare indietro, né di andare oltre. Ma per riconoscere che c’è un punto in cui anche il pensiero più rigoroso deve misurarsi con ciò che non controlla. E che restare lì, senza riparo, è forse il gesto più radicale che resti possibile.
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