Filosofia

Nella morsa della biopolitica: Pasolini in difesa dell’umano

In un recentissimo e denso volume Paolo Desogus illustra la strategia testuale dell’ultimo Pasolini nell’indicarci le aggressioni biopolitiche del capitale e del neoliberismo.

6 Luglio 2025

Paolo Desogus – In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia- La Nave di Teseo, Milano 2025

È appena uscito nel maggio scorso questo libro di Paolo Desogus che immagino si collocherà — come le pubblicazioni del centenario della nascita del 2022 — sulla scia della ricorrenza quest’anno del cinquantenario della morte.

È un testo sia accademico che militante, ovvero espressione di quella Accademia militante che specie in Italia offre diversi esponenti. La riflessione di Desogus privilegia il Pasolini corsaro e luterano che con la critica della civiltà dei consumi investe la tematica della trasformazione biopolitica disumanizzante che la civiltà capitalista e l’ideologia neoliberale imprimerebbero appunto sul bios  (quell”umano del titolo) alla cui strenua difesa Pasolini correrebbe con tutto se stesso e la sua opera di poeta, regista e soprattutto saggista. Di qui le connessioni implicite stabilite soprattutto con Foucault e Roberto Esposito (il quale in “Pensiero Vivente” del 2010 dedica un capitolo— Varco IV L’Insostenibile” — al “pensiero” di Pasolini). Altro punto di contatto con Foucault sarebbe l’attitudine alla parresia, a dire la verità costi quel che costi anche il proprio sacrificio personale. In effetti questo è anche il terzo tema argomentativo segnalato da Siti (in “Quindici riprese”) della costruzione del mito inscalfibile di Pasolini su cui si instrada anche questo testo di Desogus, il quale, vedremo, dissentirà in più punti col curatore insieme a Silvia de Laude, delle Opere complete in dieci Meridiani Mondadori.

« La tesi di questo libro — scrive l’autore in esordio — è che il valore e la “superiore attualità” di molte sue considerazioni sono in realtà dovuti all’esperienza di conflitto maturata con il proprio tempo, lungo un percorso ricchissimo di cambiamenti, dall’avvento alla caduta del fascismo, dalla lotta di Liberazione e dalla rinascita del movimento operaio alla fine delle speranze di rivoluzione, dal sorgere del miracolo economico all’affermazione della nuova civiltà dei consumi che ha modificato la percezione dell’essere umano sul mondo e su se stesso».

L’articolato del corposo saggio — quasi cinquecento pagine — non trascura altri momenti tematici e biografici del poeta friulano, anche con materiale non ricompreso nella monumentale edizione dei Meridiani, momenti nei quali Desogus s’addentra con una densità critica e una esposizione dottrinaria spigolosa che, credo, raggiungerà più il lettore già informato che quello massivo. A ciò si aggiunga una discussione aperta con i critici con i quali egli dissente, e cioè per usare l’immagine spaziale di destra e sinistra sul primo versante Walter Siti e su quello opposto Franco Fortini. Discussione che è meglio affrontare prima, saltando l’esposizione lineare dei capitoli, per avere subito l’idea della posta in gioco e del posizionamento dell’autore del volume che abbiamo tra le mani.

Desogus ovviamente dissente da Walter Siti. “Quindici riprese” gli appare come «un’ipotesi di lettura che di per sé avrebbe grandi potenzialità analitiche, se non fosse però perturbata da una sorta di “antagonismo” con l’autore». E aggiunge che gli sembra di «scorgere in Siti l’influsso di Nabokov, che nelle sue celebri lezioni suggeriva ai suoi studenti di trarre piacere artistico dalla lettura degli autori detestati immaginando modi diversi e migliori di riscrivere le loro opere». «Nell’ottica di Siti Pasolini sarebbe infatti un caso da stanare, correggere e giudicare attraverso una ricognizione delle motivazioni profonde e del “trauma” rimosso che avrebbe alimentato la sua vena poetica e intellettuale. L’obiettivo sarebbe in altre parole quello di smascherare Pasolini, mostrare le sue insufficienze letterarie […] e mettere in evidenza le contraddizioni interiori, a partire dalla stessa passione civile che, secondo Siti, sarebbe dovuta a un’inconfessata ossessione narcisistica. Gli stessi scritti politici nascerebbero dal tentativo di “tradurre in passione civile l’ossessione erotica”. Allo stesso modo, le considerazioni sull’Italia del suo tempo, sulle distorsioni della modernità, sulla “mutazione antropologica” sarebbero solo pretesti per trasformare in un fenomeno storico collettivo qualcosa di personale e inconfessabile.» Ma ecco la critica più pungente: «nei suoi scritti [Siti] ha quasi sempre la meglio il ritorno alla dimensione biografica. Stile, contenuti, questioni letterarie più generali, insieme agli annessi problemi di ordine filosofico, passano in secondo piano, fino ad apparire come un espediente retorico per rendere credibile la sua recita.»

«Sarebbe un errore non riconoscere in alcune osservazioni una notevole forza di indagine, soprattutto quando Siti mette a nudo la menzogna del mito di Pasolini. [vedi la ricognizione che ne ho fatto l’altro giorno su queste pagine qui  urly.it/31bdj6 ]. Occorre anzi rendergli merito per aver sempre diffidato delle narrazioni eroiche, ben sfruttate dall’industria culturale e dai tanti critici improvvisati e a corto di idee. Non di rado la sensazione è che però Siti vada molto al di là delle sue esplicite intenzioni. Non riuscendo mai o quasi mai a riconoscere la priorità ai contenuti della riflessione di Pasolini rispetto all’ombra lunga della sua figura e concentrando anzi l’analisi sulle falsificazioni profonde del suo io (il “Pasolini che conta è un bambino che muore di eccitazione spiando il coito dei propri genitori”), Siti finisce per restare vittima di ciò che intendeva demistificare, contribuendo all’edificazione del mito pasoliniano che apparentemente pretende di combattere. Accade così che nei suoi commenti la gestualità prende il sopravvento sulla testualità, l’assillo erotico sullo stile, la morale sull’impegno, il tempo della vita sul divenire della storia, la dimensione psicologica su quella teorica e filosofica. È questo il fatale paradosso della critica sitiana.»

Del pari, al rapporto con Franco Fortini e il suo aspro “Attraverso Pasolini”, è dedicato il cap.V. Scrive Desogus che “Attraverso Pasolini” — il volume in cui Fortini raccoglie alla fine degli anni Novanta tutti i suoi interventi su Pasolini — è «un testo privo di distanziamento, incapace di confrontarsi con Pasolini facendo astrazione dei trascorsi personali, dei momenti di astio e delle idiosincrasie politiche e intellettuali.»

«A Fortini — prosegue Desogus — non interessa pubblicare un libro neutrale, né tantomeno un’introduzione all’opera del suo antico compagno-avversario. Non vi è da parte sua alcuna intenzione di sciogliere gli ostacoli o di ricomporre retrospettivamente un’antica divisione». «Può essere dunque molto rischioso leggerlo come un’introduzione a Pasolini o con l’intento di estrarne giudizi e categorie generali sulla sua poetica o sul suo lavoro intellettuale.»

Aggjungiamo noi — visto che l’autore si è posizionato in un ambito di discussione tra specialisti e che ci siamo già giocati il lettore comune — che totalmente ignorati nella rassegna dei critici di Pasolini sono il “Dimenticare Pasolini” di Pierpaolo Antonello (Mimesis 2012) ma più significativamente il “Pasolini personaggio” (Interlinea 2022) del critico di lungo corso Gian Carlo Ferretti — sessant’anni di studi su PPP —, forse perché il primo ridimesiona la figura del poeta-vate e il secondo individua non senza una certa tigna la cura ossessiva che Pasolini dedicò alla edificazione e affermazione del proprio personaggio pubblico attraverso una metodica di autopromozione vigile e accurata (una vera e propria tecnica collaudata) fin dal momento in cui approda a Roma nel gennaio del 1950 ossia quel ricorrente, diabolico sincronismo di persecuzione -sfida- scandalo- successo, e quindi dibattito- critica- solidarietà- affermazione. Il perseguimento infine di una fama derivante da un deliberato succès de scandale.

Proseguendo in una ricognizione rabdomantica del volumone di Desogus dico che fine e pregevole mi è parsa la disamina dei rapporti tra il poeta e il Pci, la migliore che mi è capitato di leggere nei vari testi da me affrontati di recente. Sicuramente un passo avanti rispetto a quella di Borgna (rintracciabile nel volume scritto a quattro mani con Adalberto Baldoni “Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra. Vallecchi, 2010), anche nella interpretazione dei versi de “Le Ceneri dì Gramsci”. Resta tuttavia in ombra nella ricognizione che ne fa Desogus l’aspetto strumentale e mi si perdoni il termine “opportunista”— ai fini cioè della propria affermazione personale nel paronama asfittico della cultura italiana anni 50-60 — della propria ascesa personale ossia, che essa potesse avvenire “senza”, al “di fuori” o per avventura “contro” il Pci. Se perfino l’aristocratico Visconti fu agli inizi compagnon de route del Partito figurarsi il piccolo borghese Pasolini. Non credo fosse possibile “splendere” in quegli anni fuori dagli apparati ecclesiastici o partitici. Valeva in quella italietta senza mercato, che esplose negli anni Sessanta — mercato che liberò tutti dai servaggi degli apparati che Pasolini paradossalmente deplorò ma senza il quale probabilmente non sarebbe diventato Pasolini— il principio dell’extra ecclesiam nulla salus. Del resto Pasolini lo dichiarò apertamente nel “Caos”. Dove criveva: «Era infatti il PCI quello florido e ancora inattaccabile del dopoguerra, appena uscito dalla Resistenza che determinava e decretava il successo letterario di un autore. L’Italia era allora un Paese povero (paleocapitalistico): e il letterato vi poteva facilmente assumere, come ancor oggi nei Paesi poveri e incolti, la funzione «nazionale» della guida, del vate, sia pur modernissimo, e magari cittadino onorario di Parigi. Ora, l’egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal PCI, è passata nelle mani dell’industria.» (Rubrica n.33 del 13 agosto 1968). Industria alla quale Pasolini non pare aderisse con remore, crisi di coscienza o eccessive riserve mentali.

Ma il cuore del libro di Desogus è la requisitoria aspra, che egli individua già tutta in Pasolini, specie nelle “Lettere luterane” in cui abiura dalla “Trilogia della vita” per non rendersi complice dello strazio che sui corpi, sul bios esercita il Capitale, contro il neocapitalismo il quale «non agisce infatti più solo nella coscienza, ma penetra nei desideri e nei più intimi recessi della corporeità». Ma anche «il nuovo potere [è sempre il neocapitalismo ] non si limita più ad agire sul senso comune, sui modi di pensare, ma penetra nella sfera del bios allo scopo di assoggettarne ogni fibra, ogni estremità sensibile». Tale che «godere delle nuove opportunità, aderire alle forme di estetizzazione della vita, iscrivere la propria esistenza nel programma di appagamento del benessere e di realizzazione individuale si traduce in atto di volontaria sottomissione all’utilitarismo interno alla logica della produzione e del consumo».

Schiavi del Capitale insomma, proprio no.

Tutta la requisitoria biopolitica, peraltro di finissimo stile e di incalzante densità critica è individuata in capo a Pasolini e fatta propria da Desogus, tipico massimalista accademico, con un oltranzismo che non ammette repliche.

A noi — annichiliti dalla diagnosi pesantissima e con le spalle al muro — non resta che qualche timida perplessità sul potere distorcente e omologante dei consumi che sarà pervasivo e disumano ma che ha avuto qualche tratto liberatorio. Ma è tematica che chiederebbe un’analisi a parte. In questo «orribile universo dei consumi» così aspramente stigmatizzato da Pasolini e da Desogus ci sarebbe in fondo anche quella Vespa di finissimo design italiano a cavallo della quale il regista Nanni Moretti, in evidente conflitto simbolico, in “Caro diario”, rende omaggio all’autore che più di ogni altro ha disprezzato i consumi come pervertimento dell’ordine naturale, morale, estetico. Dell’umano in una parola

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