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Letteratura

A 40 anni dalla morte, un ricordo di Montale e delle sue Muse

di Biagio Riccio
12 Settembre 2021

Nella poesia di Montale le donne hanno avuto un ruolo decisivo e fondamentale. Si contano tante Muse, ma quelle che veramente hanno ispirato il grande poeta sono state la “Mosca”, la “Volpe”, Clizia.

Perché per Montale la donna ha una struttura taumaturgica, miracolosa, aiuta a discernere la realtà, a comprenderla ed a superarla nella sua tragicità, nella sua endemica conflittualità, inquietudine. La donna è gioia, incontro con il cielo, la parte migliore del creato, quello che Dio ha donato all’umanità come felicità concreta.

Tuttavia, come è stato acutamente sostenuto “ogni figura femminile è una figura di un’assente della quale urge la presenza” (Le Muse di Montale a cura di Giusi Baldissone).

La raccolta “Ossi di seppia” fu dedicata ad Irma Brandeis una giovane americana che Montale aveva conosciuto a Firenze nel 1933 e che frequentò fino al 1939.

Fu identificata come “l’angelo della visitazione”, come “dea da nube” e quando gli chiese di seguirla negli Stati Uniti Montale rifiutò.

Irma Brandeis diventerà Clizia, la donna girasole innamorata del sole-Apollo. Irma è luce che acceca, è lampo, il suo tratto distintivo sono la folgore, il fuoco, per descriverla Montale è attento anche al campo semantico utilizzando verbi come brillare, accendersi, illuminare.

Nel buio della guerra, nella tragedia di quei tempi nefasti, Clizia è come una divinità che si incarna ed a lei si rivolge il Poeta:

“i desideri porto fin che al tuo lampo non si struggono”

(così nella poesia “Orecchini”).

Ne “la primavera hitleriana” (il titolo della poesia è già ironico perché Hitler porta orrore e distruzione con la guerra che ha propinato per l’umanità e non primavera) Clizia che “il non mutato amore mutata serbi” (verso come noto dantesco), perché pur trasformata dalle sofferenze del tempo in lei prevale, non si muta l’amore che viene sempre conservato, “deve scendere dal cielo con il respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci” (così nella poesia “La Primavera hitleriana”)

Se Clizia è una donna dai tratti divini, Maria Luisa Spaziani è immanente alla terra, non ha niente dell’essenza sovraumana, ma è l’eros demoniaco, piena di un’astuzia, come una Volpe, soprannome a Lei attribuito da Montale. Nascerà un sodalizio culturale, una grande amicizia, qualcuno sostiene anche un intenso amore con Montale che rimarrà legata a Lei sin dal 1949.

Montale dirà che:

“accanto a lei mi sono sentito un uomo astratto con una donna concreta: lei viveva con tutti i pori della pelle. Ma anch’io ne ricevevo un senso di freschezza, il senso di essere ancora vivo”

(Giulio Nascimbeni, Montale Biografia di un poeta, Libreria editrice).

In una famosa poesia “Anniversario” a lei dedicata dirà:

“dal tempo della tua nascita…sento vinto il male, espiate le mie colpe…Il dono che sognavo non per me ma per tutti appartiene a me solo…”

 

“Io gli dicevo “vieni” e lui veniva con la leggerezza dell’arcangelo. Nel consuntivo dei bei giorni andati solo la leggerezza è da rimpiangere”

(Maria Luisa Spaziani).

La “Mosca” è invece la di lui moglie Drusilla Tanzi che Montale ha sposato, mosca perché minuta, occhialuta, ma sempre accanto al Poeta.

“Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale ed ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino…”

La sua poesia, come fu da lui stesso affermato,

“non ha mai cessato di battere alle porte dell’impossibile. Nella mia poesia non oserei parlare di mito, ma c’è il desiderio di interrogare la vita. Ho tentato di sperare, di abbattere il muro, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che attende una risposta”.

In un’intervista immaginaria pubblicata su “Rassegna letteraria del gennaio del 1946” Montale ci dice che

“pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure attraverso la poesia sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. La miglior cosa sarebbe stata il taglio di quel filo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo. Ma questo era un limite irraggiungibile”

(Intervista immaginaria).

Come dirà un autorevole critico letterario e suo amico Gianfranco Contini, la poesia di Montale è l’esempio paradigmatico di una scrittura che alla fine diventa un dono, riesce a fabbricare la grazia.

Ma la parola è fatta di storte sillabe, secche come un ramo, con le quali possiamo dire ciò “che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Il mal di vivere è come un ruscello strozzato che gorgoglia, come se fosse un lamento, è come l’incartocciarsi di una foglia riarsa, rinsecchita, come un cavallo stramazzato.

Può solo la poesia rinfrancarci toccare il meriggio, farci volare come un “falco alto levato” al cielo.

letteratura italiana poesia
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