Letteratura
Dove sono finiti i mondi di domani?
Si legge poca fantascienza, e se ne scrive ancora meno. La capacità di immaginare nuovi mondi e nuove società sembra affievolita, spesso sostituita da una ripetizione di temi e scenari già noti. Mai come ora ne avremmo però un grande bisogno.
Mentre scrivo, sono circondato dalla collezione di fantascienza di mio padre: Editrice Nord, Cosmo Argento e Oro, la serie dedicata ai Premi Hugo, e le opere complete di case editrici ormai scomparse o trasformate, oltre a qualche volume più recente. Faccio quel che posso per mantenere viva questa eredità, aggiungendo ogni mese un nuovo numero di Urania che — quasi per paradosso — mi arriva ancora per posta, come un regalo inaspettato da un’altra epoca. Ogni tanto acquisto qualche volume singolo, ultimamente soprattutto fantascienza cinese, alla ricerca di storie che escano dall’orbita occidentale.
Qualche tempo fa ho usato l’intelligenza artificiale per orientarmi in questa foresta di speculazioni fantascientifiche. Ho fotografato tutti i titoli e ho chiesto consiglio su quale leggere per primo, non volendo anch’io applicare il metodo dell’Autodidatta (La Nausée, J.-P. Sartre): leggere tutto, in ordine alfabetico, fino a esaurimento di ogni senso.
Scartati i titoli già letti, ho fatto una scoperta entusiasmante: Piano Meccanico (Player Piano) di Kurt Vonnegut, pubblicato nel 1952, oltre settanta anni fa.
Inutile dirlo: era da tempo che non leggevo qualcosa di così attuale.
In un futuro prossimo e inquietantemente plausibile, Piano Meccanico descrive una società completamente automatizzata, in cui le macchine hanno sostituito quasi tutti i lavoratori umani. Il protagonista, Paul Proteus, è un ingegnere di alto rango che comincia a dubitare del sistema, diviso tra tecnocrati privilegiati e una massa disoccupata, solo apparentemente felice perché mantenuta economicamente dal Sistema. Con toni satirici ma lucidi, Vonnegut anticipa temi oggi centrali: l’alienazione tecnologica, la perdita di significato del lavoro, la ribellione sterile contro un sistema impersonale. È una distopia sobria, senza catastrofi: il vero disastro è la normalità.
Grazie a opere come Piano Meccanico, e a molte altre, abbiamo da decenni gli strumenti per prepararci al nostro futuro. La prima riflessione è che spesso non li usiamo. La seconda, forse più inquietante, è questa: quando abbiamo smesso di guardare così lontano?
Riabbonarmi a Urania aveva anche questo scopo, oltre a quello affettivo: guardare avanti, grazie alla capacità critica dei grandi scrittori di fantascienza. E qualcosa ho trovato. Ottimi scrittori, certo. Ma pochi — e non me ne vogliano gli altri, tanto non citerò nessuno — che sappiano immaginare nuove società, mondi, futuri possibili. Troppi si limitano a riorganizzare in modo diverso gli elementi classici della fantascienza più mainstream: robot, astronavi, pianeti, imperi caduti e caos postnucleare.
Un retro-futuro, come l’ha definito più volte Joshua Rothman sul New Yorker.
Lo stesso Rothman che oggi si — e ci — chiede: stiamo prendendo l’IA abbastanza sul serio?
Credo di no.
E forse proprio la mancanza di un nuovo periodo d’oro della fantascienza, dopo il venticinquennio tra il 1938 e il 1963 e la new wave degli anni Sessanta–Ottanta, lo dimostra.
Non stiamo prendendo sul serio nulla del nostro futuro.
Prendere sul serio qualcosa non significa preoccuparsi o affannarsi. Vuol dire, almeno nella mia idea, soffermarsi sul suo senso, approfondirlo, provare a comprenderlo. Qualcosa si è effettivamente rotto nello sguardo che volgiamo al domani. Non so se perché non sembra esserci molto di positivo, o perché il presente corre così in fretta che viviamo con la sensazione di essere già nel passato.
Manca — o forse non c’è spazio visibile — per chi prova a creare nuove visioni.
Non ho letto The Anxious Generation di Jonathan Haidt, e non voglio avventurarmi in una disamina delle cause culturali o psicologiche di questa stasi. Ma mi pare evidente che molti prodotti culturali — dai Lego alle serie TV, dall’estetica degli oggetti alla musica — cerchino senso nel passato, più che lanciarsi nel futuro.
Manca, dannatamente, la voglia di fantascienza.
Non che il futuro non venga descritto: lo è, eccome. Ma in modo accademico, nei report, negli scenari da convegno. Tutto molto accurato, ma anche terribilmente piatto.
Statistiche. Previsioni. Calcoli. Che, per quanto fallaci, sembrano oggi l’unico approccio possibile all’incertezza.
Qualche mese fa ho provato a scrivere un racconto di fantascienza. Pensavo fosse originale, audace, riuscito. Poi ho letto alcuni libri degli anni Cinquanta e Sessanta: c’era già tutto. Solo scritto meglio.
Ma il problema, ovviamente, non è che io non ho idee originali. È che non ne vedo molte in giro.
Viviamo in un’epoca in cui c’è una crisi dei corpi intermedi, dei partiti, delle istituzioni. Le università sono centri di eccellenza, certo, ma non sempre luoghi per grandi visioni, sotto scacco come sono da finanziamenti e H-index.
Intanto, aziende e popolazione — dice l’Istat — invecchiano e non si rinnovano. La produttività ristagna. Sempre più lavoratori perdono il senso di ciò che fanno. Il lavoro diventa sussistenza economica e morale. E pochi, a leggere le statistiche, sentono di contribuire davvero a qualcosa.
Dov’è l’alternativa possibile? Dove stiamo andando?
Eppure, durante il famoso periodo d’oro della fantascienza — tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Sessanta — il mondo affrontava alcuni dei decenni più bui della storia contemporanea. E proprio allora, gli scrittori seppero pensare a un futuro lontano. Certo, la tecnologia galoppava. Ma lo faceva sui cavalli dell’Apocalisse. E nonostante tutto, sopravviveva la consapevolezza che in mezzo all’orrore esistessero potenzialità enormi. E con loro, la speranza, ostinata, in un futuro radicalmente diverso.
Su questo punto prendo in prestito una citazione lucida, tratta da un articolo di Simon McNeil, intitolato Nobody Wants to Buy The Future: Why Science Fiction Literature is Vanishing:
Marketing will not save science fiction. Whether something is shelved as Sci-Fi, whether it’s nominated for Hugo awards, whether it makes volume in sales, these shouldn’t concern us as readers or as critics. It shouldn’t even concern us as writers except within the bounds of whether writers are earning a reasonable living from the fruit of their labor. Instead, we should recover the critical lens of Science Fiction, the power of tethering unbridled imagination to a knife that cuts the present. If the tech barons want to build the Torment Nexus then let’s foster a literature that says, “they built the damn thing and they should be scourged for it.”
Una frase che taglia netto tra ciò che è fantascienza di superficie — quella che vende, che vince premi, che compone saghe — e ciò che è fantascienza viva, politica, immaginazione critica legata alla realtà.
E allora vale la pena affiancare a McNeil un monito che viene dal passato, e che oggi suona più attuale che mai. Lo disse Arthur C. Clarke:
“I politici dovrebbero leggere libri di fantascienza, non western e polizieschi.”
E noi a scriverli, aggiungo.
La fantascienza non serve a prevedere il futuro, ma a restituirci la libertà di immaginarlo. È un esercizio critico, emotivo e politico che oggi ci serve più che mai: per non affidarci a visioni preconfezionate, per non accettare il presente come inevitabile, per non confondere la gestione con il destino.
Non so ancora scrivere un racconto o un romanzo su tutto questo. Ma credo che l’arrivo dell’intelligenza artificiale ci offra una possibilità concreta. Condivido l’idea lanciata anni fa da Neal Stephenson con il suo Project Hieroglyph: possiamo tornare a scrivere del futuro in chiave costruttiva.
Man mano che l’IA si farà carico di molte attività ripetitive e a basso valore aggiunto, potremmo trovare lo spazio per recuperare un senso più ampio in ciò che facciamo. L’intelligenza artificiale non crea dal nulla: lavora su ciò che abbiamo già prodotto. Tocca a noi continuare a spingerci oltre.
Non si tratta solo di avere più tempo.
Si tratta di assumerci la responsabilità di immaginare dove vogliamo andare.
Di non lasciare che a raccontare il nostro futuro siano solo le grandi aziende o i tecnocrati.
Scrivere fantascienza, oggi, può essere un modo per tornare a farlo.
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