Letteratura

L’orso bianco era nero. Storia e leggenda della parola

La parola non è uno strumento. È un’origine. Vecchioni ne segue le tracce con stupore e disincanto.

4 Giugno 2025

Ci sono parole che non descrivono. Sorgono. Non servono a nominare il mondo, ma a renderlo abitabile. Non nascono nei dizionari, ma nella carne. Nell’urgenza. Nella fame di contatto che precede ogni grammatica. Roberto Vecchioni, con questo libro anomalo, non cerca definizioni. Cerca origini. Cerca i punti in cui la parola si fa ferita. E canto. E brivido.

L’orso bianco era nero (Piemme) non è un trattato. Non è un memoir. È un attraversamento. Un dialogo con ciò che ci tiene in piedi e ci tradisce: il linguaggio. La parola viene interrogata come un’amante troppo antica. Troppo libera per essere posseduta. Troppo viva per essere conservata in una formula. Vecchioni le corre dietro come un poeta disilluso. E ogni volta che crede di averla afferrata, le chiede scusa.

Non c’è niente di tecnico in queste pagine. Non c’è ordine, né ordine vuole esserci. C’è una tensione narrativa che si muove tra mitologia e autobiografia, tra filosofia e gioco, tra l’etimologia e il caos. La parola diventa organismo. Non serve per comunicare. Serve per toccare. Per scardinare. Per generare vertigine.

Vecchioni non ha bisogno di dimostrare. Ha già visto abbastanza mondo per sapere che le parole non servono a convincere. Servono a stare dentro al vuoto. A trattenere il senso quando tutto cede. A balbettare davanti a ciò che ci supera. Questo libro non spiega il linguaggio. Lo interroga. E nel farlo, ci interroga. Non perché cerca una risposta. Ma perché ci chiede se siamo ancora capaci di dire senza addomesticare.

La parola, dice tra le righe, non è proprietà. È dono. Ma un dono inafferrabile, che si riceve solo nel silenzio e nella frattura. Quando ogni cosa detta è già troppo. Quando ogni parola vera ha il peso di un corpo. E l’ambiguità di una ferita.

Non è un saggio. È un atto. Un atto linguistico, ma anche etico. Perché dove la parola si consuma, si consuma anche l’umano. E dove viene restituita al suo battito originario, rinasce una possibilità di incontro. Di responsabilità. Di poesia.

Vecchioni, qui, non canta. Resta in ascolto. E nel suo ascolto c’è più musica di mille partiture. Perché non si tratta di dire bene. Si tratta di dire necessario. Di portare la parola fino al punto in cui non si può più fingere.

L’orso bianco era nero non è un titolo paradossale. È un avvertimento. La parola non è neutra. Non è mai stata. È creatrice o distruttrice. È arma o carezza. Dipende da come ci si entra. E da che cosa si è disposti a perdere per dirla davvero.

Questo libro non consola. E nemmeno rivela. Fa un’altra cosa: apre. E nell’aprire, lascia che il lettore decida se avere il coraggio di seguire la parola fino alla sua nudità. Senza più difese. Senza più stile. Solo carne. Solo voce. Solo verità.

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