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Letteratura

“Preferirei di no…”

di Filippo Cusumano
7 Febbraio 2019

Rileggo uno dei racconti più famosi e più belli di tutta la letteratura, “Bartleby, lo scrivano” di Herman Melville, scritto nel 1853.
È la storia, narrata in prima persona, di un avvocato di New York che, all’ampliarsi della sua attività, decide di assumere un terzo scrivano nel suo ufficio di Wall Street.
Risponde all’annuncio Bartleby.
Il narratore lo descrive come persona “pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida!”.
In principio Bartleby esegue diligentemente il lavoro di copista, ma si rifiuta di svolgere altri compiti, sconcertando il suo principale con la risposta “Preferirei di no”.
(in originale “I would prefer not to”).
Una domenica, trovandosi a passare dalle parti del proprio ufficio, il narratore, con sua grandissima sorpresa, scopre che Bartleby ha preso lì la sua dimora.
Inserendo la chiave nella serratura, mi accorsi che non girava, a causa di qualcosa inserito dall’altra parte. Piuttosto sorpreso, provai a chiamare, e con mia grande costernazione, sentii un’altra chiave girare dall’interno: spingendo verso di me il viso smunto dalla porta socchiusa, mi apparve la visione di Bartleby in maniche di camicia, e per il resto con indosso nient’altro  che una veste da camera incredibilmente sbrindellata.[…] L’apparizione del tutto inattesa di Bartleby che occupava i locali del mio studio la domenica mattina con la sua nonchalance cadaverica e signorile, ma altrettanto ferma e controllata, produsse in me un effetto talmente strano che non esitai a sgattaiolarmene via.”
Più avanti, Bartleby smette di lavorare del tutto, fornendo come unica spiegazione la frase che è diventata il suo mantra.
L’avvocato, non avendo il cuore di licenziarlo, cerca in prima battuta di convincerlo a riprendere il lavoro o, almeno, a fornire spiegazioni.
Niente da fare. A quel punto scatta il licenziamento.
Che però non distoglie Bartleby dalla frequentazione dello studio, nei pressi del quale continua ad aggirarsi.
Quando l’avvocato, per liberarsi di quella presenza, diventata inquietante, decide di traferire altrove la sua attività, Bartleby continua a presidiare l’edificio, allarmando i nuovi inquilini che lo fanno arrestare per vagabondaggio.
Quando il narratore si reca a fargli visita in prigione, Bartleby lo accoglie dicendo: “La conosco, non ho nulla da dirle”.
L’avvocato, allora, vedendolo malnutrito, dà dei soldi al vivandiere della prigione perché gli offra dei pasti migliori.
Ma Bartleby, tetragono,  “preferisce non mangiare”, e si lascia morire di inedia.
La narrazione si chiude con una riflessione dell’avvocato, che essendo venuto a sapere che Bartleby aveva in precedenza lavorato all’ufficio delle lettere smarrite di Washington, ipotizza che il maneggiare queste lettere morte lo abbia condotto alla depressione e al suo bizzarro comportamento.
La cosa su cui riflettevo, finendo di leggere il racconto, è la meravigliosa sintesi della frase con la quale Bartleby accompagna ogni suo rifiuto: “Preferirei di no”.
Bartleby non dà mai in escandescenze, non reagisce con atteggiamenti polemici, come farebbe un lavoratore di fronte a pretese lesive della sua dignità e dei suoi diritti.
Bartleby, semplicemente, quasi buddisticamente, si limita a dire che “preferirebbe di no”.
E questa sua dichiarazione, tranquilla, disarmata, ma invalicabile, blocca del tutto,  per lunghissimo tempo, il suo datore di lavoro.
Che all’inizio è stordito e affascinato più che sorpreso e indignato da quell’atteggiamento del suo sottoposto
Che dire? Un personaggio fantastico, incredibile.
Nel suo “Leggere gli uomini”, Sandra Petrignani, a proposito di questo racconto, scrive “Ci sono narrazioni che toccano una verità talmente profonda da inseguirti per tutta la vita con la loro ombra”.

 

 

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