La musica del 1985 è ricca di figure comparse, arrivate al successo, e poi rapidamente sparite

Musica

Speciale 1985 – Il Capitale Musicale

Il 1985 trasforma l’industria musicale: le major vengono acquisite da conglomerati che non hanno la musica come core business. La crisi spinge verso il teen pop e generi creati artificialmente. Phil Collins al Live Aid simboleggia l’artista corporate totale.

2 Agosto 2025

Finora abbiamo esaminato i lati musicali del 1985, con tutte le loro contraddizioni. Ora tocca approfondire gli aspetti più prettamente industriali della vicenda e in che modo sono stati spie ed anticipatori della situazione odierna.

Infatti, il 1985 rappresenta un anno cruciale anche nella storia dell’industria musicale, segnando l’inizio di una trasformazione radicale che avrebbe ridefinito per sempre il panorama culturale e commerciale della musica. In questo periodo, tre fenomeni interconnessi convergono per delineare una nuova era: il consolidamento del controllo corporativo, l’emergere di strategie commerciali innovative di fronte alla crisi di vendite, e una standardizzazione culturale calata dall’alto.

Durante gli anni ’80, l’industria discografica subisce una profonda ristrutturazione attraverso una serie di acquisizioni strategiche da parte di conglomerati multinazionali. Le storiche case discografiche indipendenti (Island, Geffen, Chrysalis tra le altre) vengono progressivamente inglobate in imperi mediatici globali, trasformando la musica da espressione artistica a prodotto industriale standardizzato. A cavallo della metà degli anni ottanta comincia prima una razzia di case discografiche ed etichette indipendenti da parte delle Major discografiche e poi queste ultime alla fine degli anni ottanta verranno assorbite da colossi dell’intrattenimento della tecnologia come il caso Sony-CBS. In Italia è clamoroso il caso della divisione nazionale della RCA, grande etichetta statunitense che, una volta acquisita dalla General Electric, decise di cedere la sua filiale tricolore alla BMG, colosso tedesco della discografia. Gli anni ’80 furono cruciali per la transizione da un mercato frammentato a uno dominato da multinazionali, con acquisizioni come RCA-BMG come simbolo di una tendenza che marginalizzò le realtà locali. Questo consolidamento pose le basi per l’attuale struttura oligopolistica dell’industria musicale italiana, dove le major globali controllano produzione, distribuzione e diritti catalogo.

Il punto cruciale di questa trasformazione è che le nuove corporation proprietarie non hanno la musica come core business: per Sony la musica diventa un segmento tra elettronica di consumo, cinema e tecnologia; per altri conglomerati rappresenta solo una delle tante divisioni accanto a media, telecomunicazioni o beni di consumo. Questo cambiamento di prospettiva è fondamentale: la musica non è più il cuore pulsante dell’azienda, ma una commodity da ottimizzare secondo logiche industriali estranee alla cultura musicale.

Questa concentrazione del potere nelle mani di pochi conglomerati globali comporta conseguenze immediate e durature. Le decisioni artistiche vengono sempre più subordinate alle logiche di mercato, con un focus crescente sui profitti a breve termine piuttosto che sulla sperimentazione musicale. Il processo creativo si burocratizza, con comitati di marketing che influenzano pesantemente la selezione degli artisti e la produzione musicale.

Il 1985 coincide anche con una significativa contrazione delle vendite di dischi, nonostante la novità portata dai CD,  spingendo l’industria a cercare nuove strategie commerciali. Per dare un’idea le certificazioni FIMI (allora gestite da AFI) rivelano un abbassamento delle soglie: nel 1985 servivano 100.000 copie per avere un disco di platino (contro le 500.000 dei tardi ’70).  E questo anche perché le musicassette, più economiche e facili da duplicare, catturavano quote di mercato, soprattutto tra i giovani. La vera crisi esplose tra il 1988 e i primi ’90, con l’affermazione del CD e la concentrazione del mercato nelle mani di poche major. I dati FIMI e le certificazioni rivelano come la soglia per un disco d’oro sia crollata del 90% dagli anni ’70 al 2025, sintomo di una trasformazione irreversibile.

Il fenomeno dell’home taping divenne un problema per le case discografiche. In tanti possedevano impianti stereo con doppia cassetta che duplicavano a quella che per allora era una velocità stratosferica i successi del momento, permettendoci anche di produrre le nostre compilation personalizzate (per chi non c’era, l’equivalente delle playlist di Spotify odierne). Anch’io sfuttavo un mio amico che lavorava come tecnico in una radio privata locale per farmi le mie cassette personalizzate. Inutile dire che molte delle cassette vergini (come si usava dire allora) usate erano Sony…

Parallelamente, l’industria inizia a sperimentare la creazione artificiale di generi musicali, segmentando il mercato in nicchie sempre più specifiche. Non si tratta più di documentare movimenti culturali spontanei, ma di progettare a tavolino categorie musicali che rispondano a precise esigenze di marketing. Questo approcci ingegneristico alla cultura musicale trasforma i generi da espressioni artistiche organiche in etichette commerciali calibrate sui dati demografici.

Ad esempio, casi di artiste come Debbie Gibson e Tiffany rappresentano il prototipo perfetto di questa nuova strategia: giovani, fotogeniche, con sound accattivanti e facilmente commercializzabili. Debbie Gibson, appena sedicenne, diventa simbolo di questo nuovo approccio con hit come “Only in My Dreams”, mentre Tiffany conquista le classifiche con cover riarrangiate in chiave pop. Queste artiste incarnano una formula vincente: talento sufficiente, immagine curata, target demografico preciso e marketing aggressivo. L’anno successivo ci sarà la britannica Samantha Fox a coltivare questo mercato, con il successo di “Touch Me”. Questi esempi dimostrano come l’industria musicale stia imparando a creare prodotti culturali su misura per specifici segmenti di mercato.

Il 1985 segna anche l’apogeo di Phil Collins come figura centrale dell’industria musicale trasformata. Collins incarna perfettamente il nuovo paradigma dell’artista multifunzionale: cantante, batterista, produttore e personaggio mediatico. La sua presenza al Live Aid del 13 luglio 1985 diventa leggendaria non solo per la performance artistica, ma per la straordinaria operazione logistica che lo vede esibirsi prima a Wembley con i Genesis, poi volare negli Stati Uniti per suonare anche al JFK Stadium di Filadelfia.

Questo evento simbolizza, oltre alle buone intenzioni raccontate nel pezzo di qualche settimana fa, il potere organizzativo raggiunto dall’industria musicale corporate: solo un sistema industriale perfettamente oliato può orchestrare il trasporto transatlantico di un artista in tempo reale televisivo globale. Collins diventa così il simbolo vivente della nuova era, dove la tecnologia, la logistica e il marketing si fondono per creare spettacoli impossibili nell’era pre-industriale della musica. La sua estetica sonora – drum machine elaborate, ballate radiofoniche, produzioni impeccabili – definisce il sound corporate degli anni ’80, influenzando intere generazioni di artisti mainstream.

La trasformazione del 1985 pone le basi per l’industria musicale contemporanea. La logica corporativa, l’approccio demografico mirato e la standardizzazione dei contenuti diventano paradigmi dominanti. Tuttavia, questa evoluzione genera anche resistenze sotterranee (la nascita di nuove etichette indipendenti ma anche il fenomeno delle compilation pirata “casalinghe”) che porteranno all’esplosione della musica alternativa negli anni ’90 (che verrà anch’essa velocemente digerita e standardizzata dal sistema delle majors), dimostrando come ogni processo di omogeneizzazione culturale contenga inevitabilmente i germi della propria contestazione, ma anche l’attitudine a servirsene commercialmente.

La prima puntata qui

La seconda qui

La terza qui

La quarta qui

La quinta qui

 

Playlist: Suoni della Trasformazione (1985)

1. “Would I Lie to You?” – Eurythmics

Synthpoprock (a proposito di etichette) perfetto per MTV

2. “Only in My Dreams” – Debbie Gibson

Il manifesto del teen pop manufatto in laboratorio.

3. “I Think We’re Alone Now” – Tiffany

Cover pop di un classico, esempio perfetto della strategia di riciclaggio commerciale delle major.

4. “Method of Modern Love” – Hall & Oates

Brano che incarna la standardizzazione del sound R&B bianco per il consumo di massa.

5. “Sussudio” – Phil Collins

Esempio di pop corporate perfetto: artisticamente vuoto ma commercialmente infallibile.

6. “Everybody Wants to Rule the World” – Tears for Fears

Dietro i suoni “carini” e in linea con le aspettative radiofoniche del periodo, il brano è una riflessione sul potere corporativo e sul controllo.

7. “Freeway of Love” – Aretha Franklin.

Come anche un’artista pluridecorata cede alle esigenze del marketing musicale del periodo, adattando la sua voce a suoni più “eighties”, con tanto di sax di Clarence Clemons in sottofondo.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.