Storia

Lettera a Rosa Luxemburg (1871 Zamość, in Polonia (all’epoca Impero russo) assassinata a Berlino nel 1919

Una lettera a Rosa Luxemburg per interrogare il senso della rivoluzione oggi, tra parola svuotata e pratica dimenticata. Libertà, dissenso, tenerezza e responsabilità come nodi politici irrisolti. Per ricordare che senza cuore la lotta diventa apparato.

19 Dicembre 2025

Ti scrivo dal punto in cui la parola rivoluzione è diventata una parola leggera, quasi da conversazione. La si pronuncia e non succede niente. Tu invece l’hai pronunciata e ti è entrata nella carne. Non come eroismo, come prezzo. Non come posa, come conseguenza.

Ti scrivo perché eri capace di una cosa che oggi sembra impossibile. Tenere insieme la durezza e la delicatezza. La lotta e la luce. La disciplina della mente e il tremore davanti a un ramo, a un animale, a una stagione che cambia. In carcere, mentre la storia stringeva il cappio, hai scritto una frase che non è un ornamento, è una dichiarazione di umanità contro il cinismo. “Attendo la primavera come una cinciallegra.” Non è fuga. È resistenza. È dire io non divento la mia prigione. Io non divento la violenza che mi circonda.

Ti scrivo perché ti hanno trasformata in un santino rosso, e così ti hanno tolto la cosa più pericolosa che avevi. La libertà. Tu eri libera anche dentro la tua parte. E questo è il punto che molti non sopportano. Hai difeso la libertà di chi dissente, non come gentilezza ma come struttura della liberazione. Perché senza quella libertà la giustizia si trasforma in apparato, e l’apparato si prende tutto, anche i vivi.

Tu non eri fatta per la propaganda. Eppure, sapevi parlare al popolo, non dall’alto, ma da dentro. Senza pietismo. Senza estetica della miseria. Con quella chiarezza che nasce quando non stai vendendo nulla, nemmeno te stessa. Il tuo pensiero non chiedeva adorazione, chiedeva responsabilità. E la responsabilità è un dolore, perché ti costringe a scegliere senza purezza.

Ti scrivo perché sei stata uccisa anche dopo essere stata uccisa. Ti hanno usata. Ti hanno semplificata. Ti hanno resa slogan. E così hanno evitato di ascoltare ciò che ancora oggi fa paura. Che non esiste emancipazione senza una trasformazione materiale della vita, che non esiste politica degna se dimentica gli ultimi, che non esiste futuro se la tenerezza viene derisa come debolezza.

Mi importa quella tua primavera. Mi importa quella cinciallegra. Perché dice che la rivoluzione non è solo abbattere. È anche custodire ciò che il potere vuole spegnere. La capacità di sentire. Di vedere. Di non diventare duri per forza. Di non scambiare la durezza con la grandezza.

Ti scrivo per dirti che il tuo nome non mi serve come bandiera. Mi serve come ferita. Mi serve come misura. Mi serve come crinale, quello in cui la politica non tradisce l’umano mentre cerca di cambiare il mondo.

E se devo imparare qualcosa da te, è questo. Non basta avere ragione. Bisogna non perdere il cuore mentre si lotta.

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