Teatro
Ivanov: il geniale ritratto di un tipo insopportabile
È con piacere che saluto il ritorno della Fondazione Teatro Due di Parma sui palcoscenici romani. Un ritorno in grande stile: Ivanov, di Checov, nella versione diretta da Filippo Dini, anche interprete con un gruppo affiatatissimo di attori giovani.
Il Teatro Due ha una lunga e complessa storia, che pianta le radici nel teatro universitario anni Settanta, si dipana tra festival e produzioni nel cooperativismo per approdare a una visione spesso europea del fare teatro e politica in città. Non è un caso, dunque, che il prode studioso tedesco Hans-Thies Lehmann, a fine anni Novanta, collocasse quello che era il “collettivo” parmense nel novero dei gruppi di punta del cosidetto teatro “postdrammatico”.
Dunque Ivanov, fatto dal Teatro Due in coproduzione lo Stabile di Genova: è uno spettacolo che si impossessa del palcoscenico dell’Eliseo con vigore e coraggio.
Oddio, a dire il vero il debutto capitolino, ha fatto sentire un po’ di emozione negli attori: ma superata un po’ di confusione iniziale, qualche sbandamento nella prima parte, e un gridare a tratti eccessivo, poi però lo spettacolo di Filippo Dini ha avvolto il pubblico in un gioco arguto e aguzzo, che ha fatto brillare il testo giovanile di Checov di una bella, sincera, luce.
Chi è Ivanov? Un pessimista, forse: oggi diremmo un depresso, un nevrotico, un ansioso. Perso. Certo insoddisfatto, confuso, scontento. E scontento del suo essere scontento. Non si dà pace del suo crogiolarsi nel dubbio, nel borbottio, nel lamentio. È la svolta dei quaranta anni: come per Vanja, sembra non avere altre possibilità se non quella di trascinare la propria esistenza. Vanja si consola con il lavoro. Ivanov fronteggia una situazione più complicata: ha debiti, ma non ha più voglia di lavorare. La moglie – che fino all’ultimo devotamente lo ama, ma poi se ne fa una ragione – sta morendo di tisi. Una ragazzina, peraltro ricchissima, si innamora di lui: forse è una nuova vita, è quella “seconda possibilità” negata a Vanja. Ma anche di fronte a quella ipotesi di rinnovata esistenza, Ivanov vacilla. Non gli va. È un essere impossibile e sa di esserlo. Gira a vuoto: ha perso l’entusiasmo, e per di più si sente in colpa. È un dramma della noia, dell’esistenza spenta: scene di vita piccoloborghese fotografate nella loro vacuità. La cosa geniale, come sempre accade in Checov, è che in questo teatrino di mostri non si salva nessuno. Aveva ventisette anni, Anton Pavlov, quando butta giù questa storia: lo fa da par suo, tenendo le briglie di una commedia esplosiva, mostrando quel comico feroce che guizza da tutte le parti nelle nostre grottesche vite. Allora affresca un quadro corale, impregnato dalle tinte fosche dell’egoismo, dell’interesse, dell’amore finalizzato a qualcosa. Ma basta qualche cenno per svelare come – sotto la maschera della dignità apparente di una classe sociale benestante – si celino delle macchiette, delle mezze figure mostruosette, arraffone e arruffone, di un egoismo sempre e comunque smodato.
Checov fa parlare di samovar e verste, di rubli e cavalli, però poi tocca il punto, il nodo, il segreto celato in ciascuno di noi: che, in fondo in fondo, siamo ridicoli.
Ivanov lo è in modo titanico, se ne assume il ruolo, l’onore e l’onere. E tutti gli vanno dietro, perché trovano qualcuno su cui proiettare e sfogare la propria mostruosità, affidandosi a una lingua (la traduzione è di Danilo Macrì) efficacissima nel dire e nel dare a intendere. E l’esito è di dissacrante comicità.
Filippo Dini è bravo e serio, cresce di spettacolo in spettacolo sia come interprete che come regista: è una sicurezza. Si avverte, ancora, il magistero di Valerio Binasco – maestro sottile e tagliente come pochi nella capacità di affrontare, interpretare e svelare il classico – con cui Dini ha lavorato a lungo. Ma lo spettacolo è di Filippo, è suo, come suo è il personaggio: lo fa muovere a fatica, spesso piegato in due, la testa tra le mani. Sul finale è slanciato ed elegante, ma solo per correre verso il suicidio. Per il resto tiene una tensione cupa, si apre a momenti comici, sorprende e spiazza, ad esempio trincerandosi dietro un divano nel terzo atto.
La corte che circonda questo re nudo vede due capisaldi morali: la sempre brava e intensa Sara Bertelà, fa una moglie che tenta di salvare la propria vita e quella del marito, quasi una Donna Anna alle prese non con un dissoluto ma con un ben più complicato depresso cronico. Poi il dottore moralista e intransigente, un fanatico cui Ivan Zerbinati dà però toni troppo caricati. C’è il vecchio conte spiantato e bonaccione di Nicola Panelli, cui il subdolo e scaltro amministratore, incisivo Fulvio Pepe, vuole far sposare la trashissima arricchita, ben intrepretata da Ilaria Falini. Poi c’è l’improbabile famiglia Lebedev: la madre arcigna e taccagna, con la grinta di Orietta Notari; la figlia tutti slanci e sincerità, di una ancora acerba Valeria Angelozzi; e infine il padre alcolizzato e succube di Gianluca Gobbi, davvero travolgente e sorprendente perno a far da amichevole contraltare ad Ivanov .
Nelle belle e funzionali scene di Laura Benzi, con le musiche (a tratti un po’ invasive) del maestro Annechino, con le luci proprio ben fatte da Pasquale Mari, lo spettacolo è arioso, intenso, a tratti strampalato. Scivoloso, direi anzi sdrucciolevole: lo spettatore rischia di perdersi, di ritrovarsi, e alla fine di ridere e commuoversi assieme.
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