Teatro
Teatro, le dive dimenticate della Belle Epoque
E’ uscito “Che peccato essere una curiosità” un volume scritto dallo storico del teatro e critico Enrico Pastore dedicato al teatro tra Ottocento e Novecento. Cinque grandi storie di stelle dimenticate che fecero da apripista alla liberazione delle donne.
Donne coraggiose. Il racconto di cinque esistenze avventurose ed emblematiche di come, tra l’Ottocento e il Novecento, il cammino di liberazione della donna è stato percorso e affrontato in un luogo da sempre egemonia o proprietà del sesso maschile e del patriarcato: il teatro. E non si tratta di teatranti che hanno agito nell’Italietta del tempo o nella più smaliziata terra francese, bensì nel mondo intero. Questo è il vero palcoscenico testimone di straordinarie vite dimenticate raccontate con scrupolo e documentazione dallo storico e critico teatrale Enrico Pastore in “Che peccato essere una curiosità” – sottotitolo “Dive dimenticate della Belle Epoque, verso la donna moderna” (412 pg, Miraggi edizioni, 25 euro) con la originale e stimolante prefazione del critico Renzo Francabandera. Le biografie oggetto di questo libro testimoniano quanto aspra e dura fu la lotta per affermare un’immagine diversa da quella che era l’angelo del focolare, colei che si doveva occupare della casa e dei figli, economicamente dipendente dall’uomo capofamiglia. Impossibilitata a esprimere se stessa, l’ambizione di indipendenza e la realizzazione personale. Soprattutto in campo artistico.
La prima cosa da scoprire in questo volume, che si legge con la sensazione di viaggiare per pagine inedite della cultura, viene dal titolo che si rifà a una frase della celebre cantante francese Josephine Baker, “Che peccato essere una curiosità”, utilizzata ogni qualvolta un intervistatore si stupiva del suo successo. Afferma Enrico Pastore che “questa frase rappresenta l’atteggiamento ancora presente nella nostra cultura, non solo teatrale, dove l’opera al femminile è ancora vista come un’eccezione o una rara curiosità”.
Nelle ricerche preparatorie diverse le sorprese offerte dalle protagoniste di questo libro. A cominciare da Sada Yacco, prima attrice e danzatrice giapponese; Clèo de Meròde, una delle prime dive a livello planetario che passava con “disinvoltura” dal palco dell’Operà a quello delle Folies Bergére”; Valentine de Saint-Point, con fama di futurista, autrice e danzatrice che promuoveva il modello della “superfemmina androgina contrapposta al superuomo” e, infine, Emmy Hennings, che attraversò le avanguardie di inizio secolo dall’espressionismo al dadaismo “di cui fu fondatrice dimenticata”.
Tra queste, avvisa l’autore, si muove una galassia “di artiste, danzatrici, attrici, attiviste, avanguardiste, poetesse, cantanti, modelle che ci dimostrano come tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento le donne non fossero affatto una presenza ancillare e accessoria, ma furono protagoniste di una straordinaria stagione artistica”. Prima di addentrarsi nelle vicende individuali però è utile, anzi necessario, fare un focus su quelli che erano “i modelli femminili generati dalla cultura maschile dalla seconda metà dell’Ottocento, modelli con cui le donne dovettero necessariamente confrontarsi, negandoli o sfruttandoli a proprio vantaggio”. Dalla donna oggetto e servitrice alla vampira che sugge le energie dell’uomo, dalla baccante e la virago al mito di Salomè
“la danzatrice ribelle e sensuale capace con il movimento del corpo di piegare i voleri dei re e sovvertire l’ordine costituito”.
Ricaricando indietro le lancette del tempo occorre risalire intanto alla fine del Settecento e segnarsi il nome di Franz Anton Mesmer, medico tedesco, laureatosi a Vienna, amico di Mozart. Nelle sue ricerche di fisico si convinse di aver individuato la presenza di uno spirito o fluido “vitale” che sprigionandosi da ogni essere può determinare influenze profonde tra di essi: di qui gli studi sul “magnetismo” di minerali e viventi (cioè il mesmerismo). Usando dei ferri magnetizzati provocò un sonno profondo e teorizzò la presenza di uno spirito vitale (magnetismo animale) che sarebbe alla base dell’ipnosi. Fece i conti con l’opposizione di medici ed ecclesiastici per cui riparò prima in Francia, poi in Svizzera per tornare infine a Vienna. Il “mesmerismo” ebbe largo seguito e fama anche se in Francia le sue applicazioni mediche vennero proscritte. Il suo amico Mozart lo citò fugacemente nell’opera “Così fan tutte” (1790). Ma fu Vincenzo Bellini nella “Sonnambula” (1831) a fare da megafono alle idee del mesmerismo (“Amina sonnambula è responsabile delle sue azioni?”). Edgar Allan Poe, in tre racconti misteriosi (“La verità sul caso del signor Valdemar”. “Un racconto delle Ragged Mountain” e “Rivelazione mesmerica”) sonda il confine tra la vita e la morte chiedendosi: “se il corpo è morto, o comunque sospeso tra due mondi, l’anima o la coscienza parlante dove e cosa sono? Corpo e anima sono un’unica entità?” . Tutto questo fervore inevitabilmente apriva squarci nel muro costruito da filosofi e scienziati.
Il mesmerismo, nonostante le opposizioni di Chiesa e medici, si diffuse in Francia, Germania e Italia. L’autore ricorda come “si affermarono nei salotti, e in seguito nei teatri, strani spettacoli nati dalla giunzione di scienza e arte che furono causa di accesi dibattiti”. Vedi il caso di Auguste Lassagne e della moglie sonnambula Prudence Bernard che sotto ipnosi diventava veggente (al Ridotto della Scala li vide persino Alessandro Manzoni). Vennero programmate sempre più serate teatrali (al Valle di Roma) con esperimenti vari di catalessi, chiaroveggenza etc… Gli spettacoli delle sonnambule incontravano successo ovunque.
Mentre il mesmerismo sopravvive in fiere e circhi fino all’inizio del ventesimo secolo il teatro tornava ad essere luogo destinato ad ospitare le performance, inizialmente soprattutto di danza. Tutto ciò coincideva con “la nascita di una nuova donna desiderosa di autodeterminarsi per ottenere maggior peso nella comunità, soprattutto attraverso il diritto di voto”.
A fare da apripista una tale Madeleine G. di origine russa che sotto l’ipnosi dello psicanalista Émile Magnin mostrò una gestualità fuori del comune e sollecitata dalla musica assumeva pose dinamiche stupefacenti. Apparve a Monaco nel 1904 ed ebbe il plauso di molti artisti ed esponenti del surrealismo, preparando così la buona accoglienza della “Salomè”.
Un capitolo importante di questo cammino liberatorio per la donna e il teatro è la vicenda delle isteriche nell’ospizio della Salpêtrière fondato a Parigi da Luigi XIV nel 1656. Questa struttura era una sorta di nosocomio per donne abbandonate, povere, colpite da malattie sessuali, prostitute etc… un luogo di privazione della libertà, un manicomio. Bisognerà attendere il 1862 con l’arrivo di Jean Martin Charcot, padre della neurologia e scopritore di molte malattie come la sclerosi laterale-amiotrofica, perchè tante cose cambiassero nel reparto da lui diretto, quello delle epilettiche che fu trasformato in centro di ricerca sull’isteria femminile. Charcot tra gli altri utilizzò anche gli strumenti della fotografia e della rappresentazione.
E’ un capitolo di forte importanza quello che viene infine descritto in questa epoca da Enrico Pastore: l’arrivo a teatro di una figura come quella di “Salomè” che condensava bene le pulsioni di libertà femminile con i pregiudizi e la scarsa propensione del potere del tempo, in mano ai maschi, di lasciare spazio all’emancipazione delle donne.
Il personaggio biblico di Salomè, la principessa giudaica ritratta significativamente nei primi anni del Novecento da Klimt, figlia di Erodiade, arriva prepotentemente in scena con il libro “Salambò” di Gustave Flaubert (1862) e “contiene “in nuce” alcune delle caratteristiche principali che connoteranno Salomè e conflagreranno in tutta la loro potenza nella tragedia di Oscar Wilde”.
Dopo Flaubert una successiva incarnazione di Salomè è nell’opera di Jules Laforgue in “Le moralità leggendarie” pubblicato nel 1886 con l’eroina che appare ben sicura di sé. Mallarmè lavora su una tragedia in versi “Hérodiade” che, pur incompleta, circolò nei circoli simbolisti, frequentati anche da Wilde. E fu proprio lo scrittore irlandese a far esplodere il caso. A partire infatti, dalla sua opera e dalla “censura e dal processo per sodomia che costò la carriera al poeta irlandese, si formerà un moto di attrazione-repulsione verso Salomè. Il teatro fu il terreno su cui si giocò questa partita, dove compositori, registi e danzatrici diedero luogo a infinite varianti del mito. Un caleidoscopio a volte pericoloso che poteva innalzare nell’olimpo delle stelle o distruggere reputazione e anni di sacrifici professionali”
“Salomè” di Wilde fu pensata per Sarah Bernhardt, attrice-diva che con i suoi “atteggiamenti anticonformisti attirava su di sé l’ammirazione e il biasimo di pubblico e critica su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico”.
Quanto descritto a grandi linee finora, è il quadro storico culturale in cui si inserisce il cuore del racconto di questo volume, le vicende appassionanti e intense di donne artiste il cui vissuto potrebbe essere spunto ideale per dei film. Un excursus necessario per offrire la cornice giusta in cui prendono forma e vita queste biografie e comprenderne il valore oltre i singoli vissuti ed esperienze.
E’ davvero stimolante avventurarsi in queste pagine di vicende pubbliche e private per fare autentiche scoperte, parallele alle biografie principali. Su tutte basti l’intrigante e maledetta vicenda di Mata Hari che presentandosi al mondo come “un’incarnazione di Salomè e della sua danza dei sette veli” s’inventò “una danza che univa erotismo e fascino orientale”. Tutto questo accadeva negli anni della prima grande Guerra in cui presto Mata Hari verrà accusata di spionaggio. Vicenda quasi parallela a quella della danzatrice canadese Maud Allan colpevole di essere disinibita e mettere in scena in forma privata “Salomè” nella scandalosa versione di Oscar Wilde. Mal gliene colse. “In Inghilterra durante tutto il conflitto, ma soprattutto nell’ultimo difficile anno di combattimenti, si respirava un’aria di sospetto, paranoia e razzismo verso ogni elemento che rappresentasse un’alterità…” Allan fu accusata da un deputato, complottista di estrema destra tale Noel Pemberton Billing in un libretto intitolato “Il culto del clitoride”. L’omosessualità maschile e femminile era vista come “veicolo di perversione e di corruzione dei costumi e, nelle tesi di Pemberton, la sua diffusione era nei piani tedeschi per diffondere Sodoma e Gomorra sul suolo britannico”. Fu un procedimento disastroso che si concluse con l’assoluzione di Pemberton e l’ammissione delle sue deliranti teorie e per contro la rovina di Allan.
Sada Yacco
La prima delle stelle teatrali raccontate nel libro è sicuramente la più intrigante, figlia di un Oriente autentico quale era il Giappone che proprio in quel periodo in Europa è di grande moda. Arriva sui palcoscenici d’Occidente l’astro di Sada Yacco o Sada Yakko, pseudonimo di Kawakami Sadayakko, che qualcuno ribattezzò la “Duse del Giappone”. Nata a Tokyo con il nome di Koyama Sada, non era un’attrice, ma, almeno inizialmente, una geisha. Una delle più celebri, conosciuta con il nome d’arte di Yakko. Cos’era una geisha? Questo termine significa letteralmente “persona dell’arte” e lo status differiva da città e città. A Tokyo una legge distingueva nettamente le geishe dalle cortigiane e dalle prostitute. Le geishe non dovevano in alcun modo immischiarsi con i loro affari e dovevano vivere esclusivamente dei proventi della loro arte. A Kyoto e Osaka la situazione era più ambigua”.
I genitori vendevano le figlie in giovane età alle “Okya”, le case delle geishe, e questo è stato il caso proprio di Sada Yacco proveniente da una famiglia di samurai in declino. All’epoca aveva sette anni. Sada Yacco crebbe formandosi (sotto la protezione del conte Ido e Kame Kamada) in diverse specialità: sapeva nuotare, esperta cavallerizza, ottima judoka, abile nell’arte della calligrafia. Per l’arte della scena ricevette gli insegnamenti da un maestro del teatro Kabuki imparando diverse danze che fanno parte del repertorio delle geishe. Yacco divenne tra le più ricercate con tariffe molto elevate.
Nel 1894 si sposa con Kawakami Otojirō, uno dei fondatori del teatro della nuova scuola Shinpa. La sua ispirazione era il teatro occidentale (anche se poi non si conosceva direttamente ma si supponeva che occorresse puntare sul realismo). Dopo alcuni lavori nel 1891 Kawakami riscosse successo a Tokyo con “La Vera storia dell’attentato a Itagaki”, drammatizzazione del tentato assassinio del leader del Partito Liberale avvenuta nel 1882. “La pièce era piena di colpi di scena, con vere scazzottate e vere contusioni, tanto da essere obbligati ad avere un medico in platea, sconvolse il pubblico soprattutto quando degli attori vestiti da poliziotti fecero irruzione sull’hanamichi, il “cammino dei fiori” passerella tradizionale del teatro Kabuki”. Sada conobbe Kawakami a teatro e da lì iniziò la loro storia sentimentale e di lavoro. Dopo diverse e incredibili vicissitudini la coppia viene scritturata da un impresario proprietario di una casa del te in America ad Atlantic City, Il 30 aprile del 1899 i due artisti si imbarcarono con la loro compagnia di 19 elementi (e non tutti attori) diretti a San Francisco. Qualche giorno più tardi i giornali rilanciarono l’immagine di Sada, “La più grande geisha del Giappone”. Sada aveva interpretato “La fanciulla del tempio di Dojoji”, una spettacolare danza Kabuki nel suo repertorio di geisha, in cui una ragazza, colma di rabbia e gelosia, finisce per morire di crepacuore. L’America fu un luogo fortunato per la coppia di attori che incassarono un successo dopo l’altro. La loro fu la prima compagnia teatrale giapponese ad essere vista da occidentali. Fu una marcia trionfale: da San Francisco a New York, poi da Londra all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. L’anno dopo fu Loie Fuller a chiamarli per una nuova tournée che toccò anche il Teatro Valle di Roma.
Le foto di Sada Yacco apparvero in tutti i giornali e iniziarono a vendersi i kimono stile Sada Yacco. La geisha diventò una star apprezzata e amata, ma anche riconosciuta per il suo talento d’attrice. Ecco cosa scrive a San Francisco il critico del “Chronicle” che aveva trascorso del tempo in Giappone: “Mme Yacco è più di una geisha […]. È un tipo molto più intellettuale di quello che c’era ai vecchi tempi, anzi, un tipo diverso di donna, e il suo lavoro ha in sé ciò che noi stranieri non abbiamo mai pensato di attribuire a quelle intrattenitrici: cervello e invenzione. Avevo visto [in Giappone] lo spettacolo del drago (Dojoji), ma mai con una tale evidenza di puro significato artistico come quando Mme Yacco l’ha eseguito l’altra sera”.
Sada Yakko, anche dopo la morte di Kawakami continuò a esibirsi fino quando fu costretta a ritirarsi nel 1917. Lo fece interpretando “Aida”. Nel frattempo aveva ritrovato il suo primo amore, il finanziere Fukuzawa (nato Iwasaki) Momosuke. Restò amante del magnate fino a poco prima della sua morte, nel 1938. Sada Yacco scomparve a settantacinque anni nel 1946, praticamente dimenticata da un pubblico che stava iniziando a fare i conti con la fine della seconda Guerra Mondiale da cui il Giappone era uscito sconfitto.
Cleo De Mérode
Icona per eccellenza della Bella Epoque, la danzatrice Cléo de Mérode incarna perfettamente la figura della donna senza pregiudizi, dallo spirito libero, capace di compiere delle scelte all’epoca poco comprensibili e criticatissime come quando decise di lasciare l’Opéra di Parigi per le Folies Bergère. Una decisione ritenuta dai più incomprensibile se non addirittura scandalosa. Eppure, guardando con il senno di poi, assolutamente sintonizzata con i modi spettacolari delle avanguardie artistiche. Figlia illegittima della baronessa Vincentia de Mérode, dama di compagnia dell’Imperatrice Elisabetta Cléo de Mérode fu, fin da bambina, “oggetto dell’attenzione dei fotografi per la sua fotogenicità. Il suo primo ritratto venne eseguito a soli tre anni nel 1878 da Paul Nadar, figlio di Felix, il Tiziano della fotografia”. A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, quando il successo cominciò ad arriderle tutti i più grandi fotografi da Leopold Reutlinger a Napoleon Serony, da Henry Manuel a Charles Ogerau, fecero a gara per immortalarla e commercializzare la sua immagine. La sua vita fu costellata da un continuo fluire di fotografie, fino all’ultimo servizio di «Vogue» datato 15 febbraio 1964 all’età di ottantanove anni. Al tempo della Belle Epoque le foto di star, soprattutto del teatro e della danza, divennero ambite e ricercate alimentando un mercato dai numeri impressionanti: alla soglia del Novecento nella sola Parigi si vendevano più di dieci milioni di esemplari l’anno, più di cinquanta nell’intera Francia. Cléo, in un primo tempo guidata dalla madre, cercò sempre di partecipare alla creazione dei propri ritratti e “di mantenere il controllo sul risultato finale”. Sia Garval che Corvisier, i due più importanti studiosi di Cléo “come icona del moderno culto della celebrità, concordano nel ritenerla una pioniera nella gestione della sua immagine di bellezza”. In questo è da considerarsi un’artista capace di precorrere i tempi della nostra contemporaneità. Una vera star in grado di dettare legge sulla moda ma anche di curare la propria immagine pubblica.
Naturalmente, ieri come oggi, questo fatto ha anche il rovescio della medaglia: cioè l’invidia che in molti casi sfiora o straborda nel vilipendio. Basta pensare a quanto accade spesso dentro la Rete e nei network sociali. Dopo tutto pettegolezzi e rumors vanno insieme in caso di dive dello spettacolo e neanche Cleo de Mérode ne fu risparmiata visto l’accanimento di cui fu fatta oggetto per una sua storia clandestina con il re Leopoldo del Belgio che aveva fama di “tombeur de femmes”…(la stampa del periodo, manco a dirlo, cucinò intere colonne di piombo su questa avventura…). Ancor di più esplosero dopo che la danzatrice posò per lo scultore Jean Alexandre Joseph Falguière. La statua fu battezzata “La Danseuse” e accese gli animi…
Ballerina classica di ottima tecnica si concentrava in modo particolare sull’arte di muovere le mani, la gestualità danzata. Nei giorni dell’Esposizione Universale, nei giardini del Trocadero proprio in parallelo alle esibizioni della giapponese Sada Yacco, Cleo de Mérode presentò un repertorio di danze cambogiane (l’anno prima erano state delle danze giavanesi in realtà inventate di sana pianta) che raccolsero un formidabile successo in tutta Europa. Cléo, simbolo per eccellenza della Belle Epoque cavalcava la moda con una sensibilità particolarmente aperta alla passione degli spettatori del tempo verso tutto quello che proveniva dall’Oriente.
Così fotografa la grande diva Enrico Pastore: “Cléo de Mérode fu Elena, Frine, Venere, Galatea, perfino Medusa dallo sguardo pietrificante, ma fu anche unica e prima a rappresentare la scissione della divina celebrità in mille immagini rifratte su ogni superficie. Ed è proprio in quel rappresentare che risiede la sua importanza storica”.
Edith Craig
“Nella Londra a cavallo tra Ottocento e Novecento vedere la signora Emmeline Pankhurst ammanettata e portata via dalla polizia fece capire al mondo che qualcosa stava accadendo. Erano le suffragette che si muovevano, il movimento che è stato indubbiamente il primo nel Regno Unito a organizzare l’arte in un’arma e uno scudo politico. Servivano gesti eclatanti allora per scuotere quel mondo e le donne non si tirarono indietro. Ma le più attive, visibili tra le suffragette erano, come è facile immaginare, le attrici. Le attrici sono state sempre, per fortuna, fuori dagli schemi e quando il movimento decise di scendere per strada le attrici erano già le diverse, le alternative. E, soprattutto erano finanziariamente autosufficienti, abituate a esibirsi in pubblico e parlare con la stampa. Pronte quindi a diventare leader. Non molti sanno che tra queste donne, tra le più attive e influenti fu Edith Craig... la prima grande regista del teatro”. Così nell’imperdibile ciclo concepito nel 2019 per RadioTre (ancora rintracciabile su Radio Replay), “Vite che non sono la tua” , lo studioso e critico teatrale Andrea Porcheddu introduce la straordinaria artista e teatrante inglese, figlia di Ellen Terry, la più grande attrice vittoriana e di Edward William Godwin, architetto di gran moda e sorella di quel più celebre sperimentatore che fu a teatro Edward Gordon. Inserendola immediatamente dentro quella formidabile storia di movimento di liberazione della donna che fu il movimento delle suffragette.
Enrico Pastore, per raccontare questa artista sceglie invece la grande scrittrice Virginia Woolf e “Tra un atto e l’altro” l’incompiuto romanzo prima del suicidio. “Un’opera complessa in cui si avverte un senso di sfiducia e di frustrazione” in cui si avverte “l’incombere di qualcosa di oscuro, ineluttabile, maligno, come un tuono distante che annuncia una tempesta”.
Nel personaggio di Miss La Trobe, nel racconto autrice di uno spettacolo, la scrittrice descrive una donna energica e con un passato da attrice. Virginia Woolf ci ha lasciato così “un emblematico ritratto di Edith Craig, la prima regista inglese, nei suoi ultimi anni di attività”. Miss La Trobe, alias Edith Craig, è “personaggio eccezionale, l’unica a combattere energicamente per tenere insieme la comunità, a risvegliare in loro passioni e aspirazioni sopite”.
Ecco cosa scrive Woolf a questo proposito: “Lei non era soltanto una stimolatrice di corde individuali; era una che metteva a bollire in un calderone corpi vaganti e voci disperse, e faceva scaturire da quella massa amorfa un mondo rigenerato”.
In queste poche linee la descrizione della regista che è stata per lunghi anni rimossa “colpevolmente dimenticata, a tutt’oggi decisamente sottostimata”. Difficile da inquadrare. Come molte artiste di questo inizio secolo, racconta Pastore, dispiegò la sua azione artistica “a ventaglio, in molti campi diversi e fecondi, dalla costumistica all’illuminotecnica, dall’organizzazione manageriale alla scenografia”. Prese parte attiva nei movimenti teatrali dell’epoca, The Other Theatre in particolare, teatro politico a favore della causa delle suffragette. Edith Craig unì avanguardia e tradizione individuando nel teatro il “luogo in cui ricostruire una comunità democratica fondata su diritti civili e pari opportunità per tutti.”
Prima sua opera da regista fu “Yodefroi and Yolande” di Lawrence Irving, figlio di Henry, per la tournée americana del 1895-96. e fu un successo. L’autore del volume ricorda come, all’epoca, il ruolo di regista donna fosse inconcepibile. Edith lavorò come attrice all’Indipendent Theatre del West End di Londra patrocinato da George Bernard Shaw e costruì la sua preparazione teatrale ad ampio raggio – dall’organizzazione ai costumi- nella Stage Society, continuando a recitare e prendendo parte attiva nel movimento delle suffragette. Fu una battaglia che trovò momenti molto aspri, un duro conflitto. In tutto il Paese si moltiplicarono marce ed eventi anche spettacolari.
“Danzatrici, attrici, drammaturghe, pittrici furono fondamentali nel riformare le consuete pratiche di promozione spettacolarizzando l’attivismo militante: si progettavano parate i cui movimenti erano minuziosamente coreografati, mentre le divise o gli stendardi erano disegnati per dare un’impressione di forza, organizzazione e decoro”. L’azione teatrale divenne così un formidabile strumento di lotta. Tra le opere di questo periodo di Edith Craig “How the Vote Was Won” e “A Pageant of Great Women” in particolare raggiunse un altissimo numero di repliche. Negli anni successivi con la nascita della Pioneer Players il binomio movimento suffragette e teatro divenne una costante con la Craig sempre in primo piano. Edith Craig in definitiva -come ha ben rilevato l’autore di questo libro che ha messo in luce tutte le qualità dell’artista inglese dimenticata-, è stata un’antesignana sulla cui ricerca oggi operano teatranti importanti come Milo Rau o i bolognesi Kepler 432. Dal 1899 visse con la scrittrice Christabel Marshall e dal 1916 con l’arrivo dell’attrice Clare “Tony” Atwood visse un “ménage à trois” fino alla data della sua scomparsa nel 1947.
Valentine de Saint Point
Nella Parigi della Belle Epoque non si può dimenticare assolutamente una donna e artista come Valentina de Saint Point, singolare figura al centro di molte contraddizioni e un incredibile vissuto. Fu poetessa, scrittrice, danzatrice e scultrice. Si portò addosso persino l’appellativo di “futurista” per via di due “manifesti” e la partecipazione ad alcune serate “marinettiane”. Ma l’artista smentì categoricamente l’appartenenza ad alcuna associazione. In realtà Valentina de Saint Point accentrò su di se metamorfosi continue e spostamenti in “un miscuglio di passatismo e rivoluzione”. Scrive Enrico Pastore che “Valentine de Saint-Point è figlia della propria epoca: rivoluzionaria e conservatrice, libertaria e antidemocratica. In questa costante dinamica vanno lette la vita e l’opera, da non considerarsi come realtà disgiunte perché cercò sempre di ricostruire in unità ciò che era diviso e frantumato. Vita e arte sono una lo specchio dell’altra”. L’autore costruisce così un ritratto affascinante di questa donna all’incrocio di grandi trasformazioni letterarie, poetiche e teatrali. Valentine de Saint Point era nata a Lione, parente alla lontana del poeta Alphonse De Lamartine. A venticinque anni ha già alle spalle due matrimoni e quattro anni dopo un divorzio dopo il quale inizia a vivere una “libera unione” con il poeta Ricciotto Canudo autore del “Manifesto dell’arte celebrista”. Nel 1905 esce la sua prima raccolta di poesia “Poèmes de la Mer et du Soleil”. L’anno successivo la “Trilogia sull’Amore e la Morte: un Amore I” e poi i successivi “Un incesto: II” e “Una morte III”. Il 1913 il debutto nella danza con la sua “Matacoria” (danza “deista” l centro di una performance multidisciplinare). Fu legatissima allo scultore Auguste Rodin di cui fu allieva, modella e segretaria.
Ma è con Canudo la relazione più importante della sua vita. Con lui inizia un turbillon di incontri, relazioni artistiche, da Marinetti a Stravinskij, da Ravel al pittore Léon Bakst, un periodo che il libro “Che peccato essere una curiosità” ricostruisce -a partire dall’infatuazione marinettiana e l’uscita del suo “Manifesto della donna futurista” a sua firma anche se non emerge affatto una condivisione dell’artista lionese con quel movimento. “Influssi…alquanto limitati ed estemporanei” conferma Pastore che con dovizia di particolari e aneddoti semi inediti fotografa questa artista dentro il brillante mondo della Belle Epoque. Che d’improvviso finì il giorno in cui esplose la prima guerra mondiale. Valentine lasciò la Francia per gli Stati Uniti. Notevole comunque l’opera di studio ed elaborazione compiuto da questa artista nel campo della danza e dell’espressione corporea.
Nel 1923 Riciotto si sposa con la sua assistente Jeanne Janin da cui ha un figlio, scomparendo pochi mesi dopo il matrimonio.Valentine tagliò i ponti con la Francia e l’Europa andando a vivere in Egitto, convertendosi all’Islam e dove si spense nella completa indigenza il 1953. Nella sua opera “L’agonie de Messaline” c’è uno degli ultimi tentativi di “creare un teatro della donna scritto da una donna”. Nella conferenza “Il teatro della donna” tenuta a Parigi all’università popolare il 2 dicembre 1912. “Valentine lamenta come la donna rappresentasse per la drammaturgia contemporanea niente altro che : “un trastullo in preda ai capricci dell’uomo e degli eventi, un tra- stullo a volte recalcitrante e maligno, ma, nella sua incoscienza, pur sempre un trastullo”.
Emmy Hennings Ball
L’ultima figura di artista al femminile a cavallo tra Ottocento e Novecento è Emmy Hennings Ball unica donna tra i fondatori del mitico Cabaret Voltaire, culla e fucina del movimento dadaista. Poetessa e cantante, musa imprescindibile del movimento nato in un caffè di Zurigo, Emmy Hennings ebbe una vita dolorosa e difficile, segnata dalle privazioni, un passato di tossicodipendenze e, soprattutto di stenti e difficoltà nel raggranellare i denari per il vivere quotidiano. Nata a Fiensburgo, nel 1885, al confine tra Danimarca e Germania, si sposa appena diciottenne. Ma non dura a lungo. Due figli, il primo muore dopo pochi mesi dalla nascita la seconda, lasciata ai genitori, mentre Emmy con il marito approda nel mondo del teatro come attrice girando compagnie e Paesi. Lasciato il marito nel 1906 si trasferisce a Berlino lavorando nei caffè meta degli espressionisti. Convertita al cattolicesimo incontra il futuro marito Hugo Ball al cabaret Simplicissimus di Monaco. Dipendente dalla morfina e dall’alcol non riesce a trovare i soldi per vivere e commette furti e si prostituisce. Inizia a comporre e pubblicare poesie e si rifugia a Zurigo con Ball. Il 5 febbraio 1916 fondano il Cabaret Voltaire. Emmy è a pieno titolo fondatrice del Cabaret che certifica la nascita di Dada e animava ogni sera con le sue poesie, le sue canzoni e le marionette. Dopo qualche mese Emmy e Ball lasciano il cabaret nelle mani di Tristan Tzara finendo nel Cantone Ticino.
La sua partecipazione ai movimenti dell’epoca era “fugace, eppure fondamentale“, scompare dietro le quinte come un artista di cabaret “alla fine del suo numero, ed è questo che la rende per molti versi difficile da rintracciare”. Uno sguardo alla sua parabola artistica è quindi “illuminante per gettare luce sulla vita e sul ruolo delle donne nel periodo compreso tra il 1910, quando giunse al culmine della sua vita da cabarettista, fino all’inizio degli anni Venti, quando uscirono i suoi più importanti romanzi”. Enrico Pastore segue passo dopo passo le orme e gli spostamenti di Emmy Hennings dando così allo stesso tempo un ritratto vivo delle origini e del successo dei cabaret in Germania. Emmy riversa su due romanzi le sue esperienze di vita in “Gefängnis (Prigione)” del 1919 e “Das Brandmal (Il marchio)” del 1920. Il primo è pervaso da “un senso di fragilità permanente”. Nelle settimane trascorse in prigione, H. condivide la sorte con le altre detenute in un sistema penitenziario “colmo di violenze e soprusi, per niente votato al recupero, ma alla sola punizione, in cui le donne sono vittime per lo più delle false accuse dei propri compagni, mariti, datori di lavoro. Il senso di smarrimento di H. è totale, ma la sua ingenuità disarmante, come quella del soldato Švejk di Hašek, mette involontariamente in luce tutte le falle del sistema palesandone l’insensatezza”.
In “Das Brandmal (“Il marchio”) appare chiaro invece come la donna viva in una condizione di prigionia, in “una gabbia formata non da sbarre, ma dai pregiudizi di una società maschilista. Questa prigione invisibile viene costruita con l’adeguarsi della donna alla morale comune, ma si palesa soprattutto nell’atto di ribellione ai valori borghesi e alle costrizioni della famiglia tradizionale”. Hugo Ball morirà nel 1927. Per Emmy la vita fu particolarmente dura. Lavorò come operaia e come governante sostenuta dall’amico Herman Hesse. Si spense nel 1948.
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