Genocidio. La parola e i fatti

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11 Aprile 2021

Uno dei meriti principali de Il genocidio, di Marcello Flores è quello di darci non solo una trattazione sistematica, ma anche di farci capire molte cose intorno alla storia del Novecento. Non solo sui fatti, ma più spesso sulla mentalità di 4 attori diversi.

Tre attori sono facilmente individuabili:

  1. chi compie l’atto;
  2. chi lo subisce;
  3. chi lo vede (più spesso “facendo conto di non vederlo”).

Ovvero: carnefici, vittime, spettatori, secondo la distinzione categoriale proposta molti anni fa da Raul Hilberg. A questo Marcello Flores aggiunge un quarto attore, fondamentale e spesso dimenticato: chi lo racconta in tempo reale in compagnia della sua solitudine.

Genocidio è un termine controverso non tanto per ciò che contiene [sinteticamente: Sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, o una comunità religiosa] ma per come quel contenuto entra tra le «cose che non possiamo non sapere». Perché quella cosa entri occorre infatti che ci sia quel quarto attore spesso dimenticato e spesso accolto con diffidenza o con fastidio (qualcosa che assomiglia al “vecchio marinaio” di Coleridge)

Il termine genocidio spesso è stato anche banalizzato nel suo impiego. Si etichettano come tali manifestazioni di violenza che meriterebbero altre definizioni: non necessariamente discriminazioni di minoranze, politiche di espulsione, pogrom configurano un genocidio (pur includendone la potenzialità). Politiche sistematiche di sopraffazione (i cosiddetti “olocausti coloniali”), i bombardamenti su Hiroshima o sul Vietnam, alla luce delle categorie dello Statuto di Londra, sono definibili come crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un aspetto questo che poi anche in relazione ai traumi che determina, si è riproposto nella riflessione su episodi di stupri sistematici di massa e sui casi di traumi ad essi conseguenti (un tema su cui hanno proposto percorsi di ricerca molto significativi sia Gabriella Gribaudi, sia David Forgacs).

Se è generalmente riconosciuto il carattere genocidario della Shoah, dello sterminio degli Armeni e dei Tutsi in Ruanda, risulta invece controverso il caso bosniaco all’inizio degli anni novanta, da taluni considerato genocidio, da altri come una forma di “pulizia etnica”.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dal giurista Raphael Lemkin nel 1945 per designare, in seguito allo sterminio degli Armeni consumato dall’Impero Ottomano nel 1915-16, una situazione nuova e scioccante per l’opinione pubblica; tuttavia, fu solo dopo lo sterminio posto in essere dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e l’istituzione di un tribunale internazionale per punire tali condotte, che la parola g. iniziò a essere utilizzata nel linguaggio giuridico per indicare un crimine specifico, recepito sia nel diritto internazionale sia nel diritto interno di numerosi paesi. L’accordo siglato a Londra l’8 agosto 1945 tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e URSS, prevede, infatti, la categoria dei ‘crimini contro l’umanità’, che include lo stesso g. e rientra a sua volta nella più ampia categoria dei crimini internazionali.

Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ha poi adottato una convenzione che stabilisce la punizione del genocidio commesso sia in tempo di guerra sia nei periodi di pace e qualifica come genocidio: l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; la sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la distruzione fisica, totale o parziale; le misure tese a impedire nuove nascite in seno al gruppo, quali l’aborto obbligatorio, la sterilizzazione, gli impedimenti al matrimonio ecc.; il trasferimento forzato di minori da un gruppo all’altro. Tale definizione è stata accolta nell’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale firmato a Roma il 17 luglio 1998.

All’inizio dire genocidio, raccontare le modalità di attuarlo, chiedere di intervenire per fermarlo fu una lotta impari, sostanzialmente fallita. Solo quando la descrizione si condensa in un nome e la parola arriva sulla carta stampata, quella scena e quella parola attraggono l’attenzione della politica. A conferma che solo nominandole le cose esistono, si potrebbe dire che il genocidio esiste solo allorché un nome si presenta come l’etichetta che rappresenta la catena dei quell’evento.

Per questo la messa a punto del concetto non è un passaggio banale e Marcello Flores insiste. Perché nominare implica non potersi sottrarre.

È il primo passaggio su cui insiste Marcello Flores in Il genocidio.

Passaggio che può apparire curioso, forse per alcuni perfino «eccentrico», eppure essenziale. Su quel particolare Marcello Flores costruisce e apre il suo libro. Giustamente perché, soprattutto per genocidio, quel fatto esiste quando se ne parla pubblicamente. E per parlarne pubblicamente non occorre (non solo la prima volta, ma tutte le volte) che ci sia accordo preliminare perché sia accolto. Il genocidio avviene, perché qualcuno lo denunci occorre tempo, poi la parola entra in circuito. Nel frattempo, l’oggetto di sterminio ha già subito la sua sorte. Ma, si dice, che quella storia ci ha insegnato a riconoscerlo qualora, si ripresentasse.

Non è vero. Perché la volta successiva si ripete la stessa sequenza. Marcello Flores lo descrive dettagliatamente nl secondo capitolo quando ricostruisce, nel secondo capitolo del suo libro, i tempi sovrapposti tra discussione se in Rwanda e se sulle colline di Srebrenica si stia compiendo un genocidio, e la realizzazione dello stesso anche in conseguenza della continua incertezza a nominare ciò che sta accadendo da parte sia del Consiglio d Sicurezza dell’ONU sia delle grandi potenze e dai paesi dell’Unione Europea formalmente impegnati a prevenire il ripetersi dei genocidi.

Dunque, prima di tutto nominare e classificare un fatto non è ancora muoversi per prevenirlo, ma forse è un processo per far tesoro di ciò che non si è capito prima.

Se c’è un segno della modernità del genocidio, questa sta nella forza del nome, sul fatto.

Il genocidio è un fatto. Eppure, solo avendo un nome, quel fatto è diventato evidente, percepibile e dunque dicibile. Non prevenibile, stando alla storia del Novecento.. Prevenire il genocidio, l’altro obbligo centrale della convenzione dell’ONU nel1948, rimane una sfida aperta che nazioni e individui continuano a fronteggiare.

Anche se fosse solo per richiamare l’attenzione su questo punto, è importante il libro di Marcello Flores

 

TAG: Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, David Forcacs, Gabriella Gribaudi, genocidio, Il Mulino, Marcello Flores, Raphael Lemkin, Raul Hilberg
CAT: diritti umani

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