Il Coronavirus e la morte di George Floyd: una nuova coscienza collettiva?

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16 Giugno 2020

Quanto è potente l’immagine del poliziotto inginocchiato sopra il collo di George Floyd? Un momento che difficilmente riusciremo a dimenticare di questo 2020. Quel “Non riesco a respirare” rimarrà come il simbolo dell’inizio di una protesta che è nata a fine maggio ed oggi, a metà giugno, non è ancora cessata, ma si è espansa, dagli Stati Uniti a tutto il mondo, mettendo in evidenza il problema del razzismo. Ok, George Floyd non è il primo uomo nero ad essere ucciso dalla brutalità della polizia. Prima di lui ce ne sono stati molti altri, e altrettanti attivisti per i diritti civili si sono impegnati per il cambiamento prima di oggi, tuttavia quello che possiamo notare di diverso è la vastità della risposta.

Le proteste contro l’ingiustizia commessa verso Floyd sono andate ben oltre tutto ciò che avevamo visto prima. Non si è trattato solamente di un hashtag su Twitter o qualche sparuta forma di protesta estremamente localizzata, no, dal 26 maggio le proteste continuano ancora ed hanno finito per ampliare il proprio significato cercando di estendersi a tutti quei simboli che hanno contraddistinto il “sistema razzista” bianco finora perpetrato. Alcuni hanno parlato persino di iconoclastìa, ma è un termine che al momento possiamo mettere da parte.

 

Proteste a Los Angeles

 

Già, perché dopo la pandemia è molto cambiato il modo in cui utilizziamo i social media. La somma di notizie negative che ci sono giunte in pochissimi mesi (come il bollettino quotidiano delle vittime alle ore 18), il numero crescente dei morti e soprattutto l’interruzione dei movimenti di base della nostra vita quotidiana hanno segnato indiscutibilmente il passo. il continuo scorrere tra notizie negative ha avuto anche un nome: doomscrolling, che indica propriamente il consumo compulsivo di aggiornamenti negativi. Il Coronavirus è stato raccontato dai media in ogni minimo dettaglio, dai medici senza dispositivi di protezione a pazienti curati nelle corsie degli ospedali che muoiono senza nemmeno poter rivedere la famiglia. Il Covid-19 ha generato in noi una paura dell’ignoto ed ha aumentato per molti, un concetto psicologico chiamato “teoria della gestione del terrore“. In breve, questa teoria afferma che l’uomo è dotato di molti meccanismi di difesa come una giusta visione del mondo, il nazionalismo, le credenze religiose, che aiutano ad alleviare la nostra paura e ci proteggono dall’ansia quando ci sentiamo minacciati dalla morte. Quando questi meccanismi di difesa non sono più sufficienti, e ci sentiamo esposti e minacciati, proviamo a connetterci ad un’entità sociale più ampia, ad un collettivo, oppure a perseguire qualcosa di significativo.

La morte di George Floyd, aggregata al cosiddetto “razzismo sistemico” e la brutalità della polizia nei confronti dei “neri” ha creato un nuovo collettivo, che fornisce a chi ne fa parte un significato ed uno scopo. Chi è sceso in piazza ed ha manifestato a favore dei diritti sociali ha dimenticato la paura della morte e l’isolamento nel doomscrolling. L’idea di sentirsi nuovamente uniti, e con uno scopo preciso, è stata rilevante nel successo delle manifestazioni anti-razziste e continua a mobilitare ancora più persone che all’inizio erano ancora titubanti. Ricerche psicologiche nel campo della gestione del terrore hanno introdotto il termine della “salienza della mortalità“: la necessità di avere un senso di chiarezza nei confronti delle visioni del mondo, dei valori e dello scopo nella società, una condizione che in molti hanno raggiunto unendosi alle proteste. Sentirsi uniti dalla stessa idea ha fatto sì, in USA, che i manifestanti abbiano ben accolto l’ex candidato presidenziale Mitt Romney, repubblicano sconfitto da Barack Obama nel 2012, nella marcia verso la Casa Bianca, per il cambiamento e la giustizia sociale. Nessuno lo avrebbe mai detto.

 

Mitt Romney durante la partecipazione ad una marcia per chiedere giustizia sulla morte di George Floyd

 

Le proteste, abbiamo visto, si sono poi estese in brevissimo tempo a tutto il mondo, offrendo a molte persone di sentirsi parte di un movimento e una comunità importanti. Il doomscrolling però non si è fermato, con la flessione delle pessime notizie riguardo al Covid-19 nei paesi occidentali, i social media sono stati riempiti di immagini violente – come quelle della morte di George Floyd – che hanno finito per rendere ancora più sensibili le persone alla brutalità della polizia e all’ingiustizia. E sebbene dalla Cina arrivino notizie di una seconda possibile seconda ondata di Coronavirus, i manifestanti si sentono comunque parte di proteste che valgono la pena di essere nuovamente riproposte.

Ok, fine del ragionamento, diciamo che il Coronavirus ha spinto moltissima gente a non permettere che la propria vita venga definita da una pandemia, in cui le uniche regole sono distanziamento sociale e lavaggio delle mani o mascherine; Covid-19 ha insegnato che l’uomo è in grado di raccogliere le proprie forze per una causa comune contro il razzismo, l’ingiustizia e la brutalità della polizia, sia con la protesta che con altri mezzi. Possiamo dirlo, dalla paura molte persone hanno trovato un significato.

TAG: coronavirus, COVID-19, George Floyd, politica, proteste, psicologia, usa
CAT: diritti umani

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