Il World Economic Forum ha pubblicato il report 2023 sulla parità di genere e l’Italia scivola dalla 63esima alla 79esima posizione su 146 Stati. A pesare maggiormente, le differenze tra uomini e donne in materia di rappresentanza politica, partecipazione all’economia e opportunità professionali
Lo scorso 20 giugno il World Economic Forum ha reso pubblico il Global Gender Gap Report 2023, che riporta i dati mondiali sulla parità di genere in ambito di partecipazione economica e opportunità professionali, risultati scolastici, salute e, dal 2006, emancipazione politica. Il quadro che ne esce è tutt’altro che roseo: seppur faticosamente tornata ai livelli pre-COVID, l’uguaglianza di genere a livello globale sembra essere arrivata a un punto morto. Dal 2006 ad oggi, infatti, nel mondo la parità tra i sessi è progredita solamente del 4,1% e, con il ritmo attuale, per colmare il divario complessivo che esiste tra uomini e donne saranno necessari 131 anni (169 per la parità economica, 162 per quella politica). A conti fatti, quindi, di questo passo la piena emancipazione femminile potrebbe essere raggiunta, a livello mondiale, non prima del 2154. Fino a quel momento, “le donne continueranno a sostenere il peso dell’attuale crisi del costo della vita e delle interruzioni del mercato del lavoro”, ha dichiarato l’economista Saadia Zahidi, Managing Director del World Economic Forum, che prosegue: “Per una ripresa economica è necessaria tutta la potenza della creatività e di idee e competenze diverse. Non possiamo permetterci di perdere lo slancio in materia di partecipazione e opportunità economiche delle donne”.
In questo contesto l’Italia, che negli ultimi due anni aveva raggiunto, a fatica, la prima metà della classifica del World Economic Forum con un 63° posto, quest’anno è scivolata di nuovo in fondo, perdendo 16 posizioni e finendo 79esima su 146 Stati. Stando ai dati del Gender Gap Report, le aree in cui il divario tra i generi è più ampio riguardano la partecipazione e la rappresentanza delle donne in politica, peggiorata di ben 24 punti sulla classifica globale (rispetto all’anno scorso, siamo passati dalla 40esima alla 64esima posizione), e il coinvolgimento nell’economia e nel mercato del lavoro, dove persiste un grosso problema di divario salariale. Rimangono pressoché invariati i dati su accesso all’educazione (dal 59° al 60°); migliorano di qualche posizione, invece, quelli relativi a salute e prospettive di vita, dove l’Italia passa da 108esima e 95esima (rimanendo però sempre nella parte bassa della lista).
Seppur in un contesto globale che non sta certo facendo grandi sforzi per raggiungere la parità di genere, quest’anno l’Italia si è riconfermata un fanalino di coda. Ad anni luce di distanza dall’Islanda, da 14 anni in cima alla classifica e unico paese al mondo ad aver colmato oltre il 90% del divario di genere, e in generale da tutti i paesi del Nord Europa, stavolta il nostro paese, perdendo 16 posizioni, si colloca anche dietro Thailandia, Etiopia, Georgia, Kenya e Uganda – nonché trentesima tra gli Stati europei, dopo Bulgaria, Montenegro, Malta e Macedonia.
Per quanto piuttosto sconfortanti, questi dati non devono stupire: è dal 2018 che le Nazioni Unite contestano all’Italia il poco impegno e gli sforzi insufficienti impiegati per colmare il divario di genere, e risalgono al mese scorso gli ammonimenti del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa che, a fronte della sua ultima visita nel nostro paese, ha richiamato le autorità italiane a intervenire in maniera concreta e urgente per incrementare e facilitare l’occupazione femminile, che a oggi è circa al 51% – percentuale che pone l’Italia in coda tra gli Stati europei (dati Consob). Del resto, questi sono anche i dati che sono stati recentemente confermati dalle nostre autorità: in occasione del convegno “Le donne, il lavoro e la crescita economica” organizzato il 22 giugno a Roma, Alessandra Perrazzelli, Vicedirettrice Generale di Banca d’Italia, ha dichiarato come, nonostante le tendenze positive registrate nello scorso decennio, i progressi realizzati fin qui in materia di parità di genere sono totalmente insufficienti. Secondo Perrazzelli, in Italia “il tasso di partecipazione femminile si colloca ancora su un livello particolarmente basso nel confronto europeo, inferiore di quasi 13 punti percentuali rispetto alla media UE”, e il nostro paese non ha ancora nemmeno lontanamente raggiungere gli obiettivi posti dall’Agenda di Lisbona, prima, e dall’Agenda Europa 2020, poi – al contrario, ad esempio, della Spagna che, se negli anni novanta si trovava in una situazione simile alla nostra, ha saputo evolvere verso una società più rispettosa delle donne. In particolare, sono le più giovani ad essere le più penalizzate: se “la crescita della partecipazione femminile osservata durante lo scorso decennio è stata trainata dalle donne con almeno 50 anni, anche per effetto delle riforme pensionistiche”, è “tra le più giovani, di età compresa tra i 25 e i 34 anni”, che si registra la percentuale più bassa di partecipazione femminile (circa al 66%, uno dei valori più bassi in Europa). E proprio questo è, stando a Perrazzelli, il dato che fa più male: nonostante l’importante crescita registrata nel numero di laureate nelle discipline STEM, e il generale successo delle giovani donne in ambito scolastico (fin dalla scuola dell’obbligo, le ragazze si dimostrano mediamente più brave dei loro colleghi maschi), le carriere delle donne continuano ad essere lente e discontinue e il divario salariale tra i sessi si attesta, ancora, in media intorno al 10%. Un dato sconfortante, se si pensa che i più recenti studi sui paesi avanzati hanno dimostrato come una più alta partecipazione femminile si associ un reddito pro capite più alto, e come un’accelerazione del processo di convergenza del tasso di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro europeo sia fondamentale alla luce delle attuali tendenze demografiche. Come afferma Perrazzelli, infatti, bisogna ricordarsi che “Promuovere la parità di genere vuol dire innanzitutto sostenere l’uguaglianza, evitare casi di discriminazione e porre rimedio ai fallimenti di un mercato in difficoltà”.
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