La morte di Aleksej Naval’nyj ci sconvolge. E non perché quell’uomo fosse “un campione della democrazia”, come erroneamente è stato definito da taluni in Occidente. Per buona parte della sua vita Naval’nyj non è stato né un Sacharov né uno Šalamov, ma un nazionalista di destra; radicalmente di destra. In una Russia diversa da quella quasi-totalitaria, imperiale e neoimperialista di oggi, in una Russia per così dire normale (che oggi ci appare utopica in modo quasi fantascientifico), Naval’nyj sarebbe forse stato solo un caustico avvocato sovranista ostile all’immigrazione dall’Asia centrale e dalla Cina, e magari anche lui avrebbe fatto parte del ringhiante club della destra populista al potere in mezza Europa.
Ma la Russia non è un paese normale, e Naval’nyj non era destinato ad avere una vita normale. Nella terra di Putin, dove denunciare la corruzione che divora lo stato è il peggiore dei crimini (perché se c’è una cosa che accomuna i russi nazionalisti e quelli liberali, quelli onesti e i ladri di polli, è l’odio per i politici e gli oligarchi che si arricchiscono alle loro spalle), Naval’nyj si era trasformato in un paladino della lotta anti-corruzione. Nel 2011, con un coraggio che in pochissimi di noi avrebbero avuto, un coraggio che gli antichi avrebbero imputato a furore divino o a hybris, fondò la FBK, la Fondazione per la lotta alla corruzione, sciolta dalle autorità russe nel 2021: in pochissimi anni lui e i suoi colleghi hanno fatto intuire, ai russi e al mondo intero, l’enorme corruzione, la montagna di ruberie, saccheggi e tangenti che hanno trasformato la Russia nel paese più diseguale e terribile d’Europa.
Perché in Russia – secondo l’UBS Global Wealth Report – l’1% più ricco della popolazione possiede il 56,4% della ricchezza. E se è vero che il denaro, come insegnava San Paolo, è lo sterco del demonio, allora da Mosca deve sprigionarsi un fetore senza eguali nel continente. Naval’nyj e coloro che gli stavano accanto (a partire da sua moglie Julija) hanno osato gettare luce su quel marciume abissale come soltanto in pochissimi prima di loro avevano fatto. Tra costoro c’era Anna Stepanovna Politkovskaja, uccisa nel 2006.
Denunciando a gran voce ciò che in troppi tacevano, gridando ai quattro venti che la Russia era una cleptocrazia mafiosa basata sulla violenza e sulla corruzione, Naval’nyj divenne il nemico più pericoloso di Putin. Non soltanto perché menava colpi contro quel monumento di falsa rinascita morale e geopolitica della nazione che il regime aveva costruito a suon di propaganda e sussidi, ma perché non aveva paura: lavorava e viveva in Russia, incontrava giornalisti, attivisti per i diritti umani ed ex ministri occidentali, girava per la strada. E come è noto nulla fa arrabbiare un capo mafioso più della mancanza di timore nei suoi confronti, dato che è dal timore (e dal terrore) che egli trae il suo potere ultimo. Il “rispetto” questo è: paura travestita da deferenza. Non so se Naval’nyj conoscesse la vicenda di Giovanni Falcone, ma credo che avrebbe apprezzato una sua celebre frase: “chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”.
Quando decise di rientrare in patria (nel gennaio 2021) Naval’nyj senz’altro sapeva a cosa andava incontro. Non era uno sciocco, né un aspirante suicida. Amava la sua famiglia e la vita. Ma comunque tornò in Russia. Arrestato, durante i processi non esitava a mostrarsi sorridente e sarcastico verso un potere giudiziario totalmente asservito al regime: un oltraggio nei confronti di Putin. Nelle grinfie della Russia putiniana, che trasforma l’oro in ferro e i fiori in letame, Naval’nyj – colui che in passato aveva mostrato ben più che mera ambiguità verso l’occupazione della Crimea – condannò l’invasione dell’Ucraina, vinse il premio Sacharov e si trasformò nel dissidente numero uno. Il nazionalismo arrabbiato divenne amore per una patria più libera e umana, dell’antica furia contro gli immigrati che rovinavano il paese non rimase che cenere: perché non sono i tagiki e i ceceni a provocare la decadenza della Russia, ma la sua classe dirigente.
Naval’nyj era (o meglio: divenne?) un uomo profondamente coraggioso, e in questi tempi di viltà e di codardia, in cui politici fanno carriera alimentando l’odio contro i poveri cristi, e giornalisti e intellettuali tendono a celebrare solo se stessi e i loro amici o protettori, in questi tempi pavidi e corrotti noi ammiriamo il coraggio, poiché senza di esso persino l’intelletto più acuminato è soltanto un’arma spuntata. Naval’nyj è morto in una specie di gulag sopra il circolo polare artico, e questo potrebbe sembrare l’ennesimo trionfo di Putin, dato che ancora una volta il presidente russo ha mostrato che lui ha lo jus vitae ac necis, il diritto di vita e di morte sui russi, tutti i russi, anche quelli che l’Occidente si sforza di proteggere.
Ma l’istinto mi porta a credere che la morte di Naval’nyj sia la seconda, grande sconfitta di Putin, dopo la resistenza eroica del popolo ucraino. Credo che la sua morte abbia scosso non solo i cuori e le menti di tanti russi ma anche di molti europei dell’ovest. Penso e ho sempre pensato che per porre fine alla tragica guerra in Ucraina servisse una grande offensiva della diplomazia occidentale, oltre che un saldo e continuo sostegno alle armate ucraine. In una mano l’ulivo, in un’altra il bastone.
Sino a ieri tanti, troppi italiani, francesi, tedeschi e spagnoli invocavano la diplomazia, ma condannavano il sostegno militare all’Ucraina: se neanche la morte di un uomo prigioniero e del tutto inerme, ucciso dal regime di Putin infliggendogli terribili stenti (e ogni vita umana è preziosa, inclusa quella di un ex estremista di destra), li riuscirà a convincere che il governo russo non ha alcun rispetto per la vita umana, nessuna moralità, nessuna onestà, e che i soldati e le soldatesse ucraine stanno combattendo una battaglia tragicissima ma giusta, che stanno difendendo anche noi italiani, francesi, tedeschi e spagnoli, e che armare Kyiv è importante quanto dare spazio alla diplomazia, perché Putin e i suoi capiscono solo il linguaggio brutale della forza e dell’interesse; ecco, se neppure lo spegnersi di una vita nel buio e nel gelo artici li sconvolge e tocca il loro cuore, allora vorrà dire che essi sono più pavidi (e ottusi) del più pavido (e ottuso) dei cialtroni russi, che non hanno imparato nulla da coloro che ci hanno preceduto, da Lussu e da Pertini, da Luciano Bolis e da Adolfo Kaminsky, da Marc Bloch e da Sophie Scholl, da Daphne Caruana Galizia e da Vicente López Tovar, da Raoul Wallenberg e da Levi, da Falcone e da Borsellino. Il coraggio si declina in molti modi: talvolta sbeffeggiando un giudice, altre volte scrivendo un articolo pericoloso, altre ancora imbracciando un fucile contro l’invasore. E chi non ha coraggio prima o poi perde la sua libertà, o la farà perdere ai suoi figli.
Foto tratta da Wikipedia, CC BY-SA 2.0, di Mitya Aleshkovskiy
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.