Seid Visin e quel confine scivoloso tra strumentalizzare e sensibilizzare

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7 Giugno 2021

In questo tempo in cui tutto tende a diventare virale, dalle partite di calcio ai programmi tv, dai comizi dei politici ai fatti di cronaca, accade spesso che da singoli eventi nascano accesi dibattiti, polemiche più o meno rilevanti che rimbalzano dalla rete agli organi di informazione e viceversa. Quante volte leggiamo sui titoli dei giornali che qualcosa “fa il giro del web” o “divide i social”? Quante volte la posizione di una notizia sui principali giornali online è decisa non dall’importanza oggettiva della stessa ma dal numero di interazioni che produce? Ormai è la norma, perché i famigerati click, soprattutto a certi livelli, diventano moneta.

Il corto circuito mediatico che si è creato nel racconto del suicidio del giovane Seid Visin è solo l’ultimo di una lunga serie: un ragazzo si toglie la vita, al suo funerale qualcuno legge un post che aveva scritto su Facebook in cui lamentava il clima di razzismo e intolleranza che si respira nel Paese, dopo poche ore escono valanghe di titoli che mettono in relazione le due cose. Ed ecco comporsi le fazioni che producono le agognate interazioni, i post ipocriti di quei politici che quel clima lo fomentano ogni santo giorno, quelli di sdegno dei loro avversari, gli scritti più o meno melensi dei professionisti del like facile e le prese di posizione di chi (compreso il sottoscritto, nel mio piccolo faccio mea culpa…) corre a sbattere in faccia a quei politici le loro responsabilità.

Arriva poi la dichiarazione del padre: suo figlio non si sarebbe suicidato perché vittima di razzismo. Ed ecco che i “buoni” diventano un po’ meno buoni (sciacalli che strumentalizzano la morte di un ragazzo per fini politici) e i “cattivi” che restano tali ma possono togliersi la soddisfazione di passare per vittime. Il contesto è forse la cosa più deprimente di tutta la vicenda: se lo scritto di Seid Visin fosse stato pubblicato due anni e mezzo fa non sarebbe mai salito alle cronache, come non salgono alle cronache gli scritti e i racconti dei tanti ragazzi italiani con e senza cittadinanza che vivono sulla loro pelle la realtà di un Paese arretrato, provinciale e sempre più incattivito. Purtroppo conosciamo lo sfogo di quel ragazzo perché è stato letto al suo funerale e perché qualcuno, senza i dovuti approfondimenti, ha collegato due cose che non andavano collegate.

Qualcuno potrebbe parlare di “strumentalizzazione a fin di bene”, ma strumentalizzare non è mai un bene, perché alla fine si finiscono per vanificare anche i più buoni propositi. Quel post di Seid Visin, veicolato in modo corretto e senza strumentalizzare la sua tragica fine, avrebbe rappresentato per tutti – non solo per una parte – una straordinaria testimonianza: quel post, preso per ciò che era nel momento in cui è stato scritto, nel suo significato nudo e crudo, poteva e doveva essere letto urbi et orbi per sensibilizzare più persone possibile su quel dramma, su quelle ingiustizie. Magari avrebbe fatto riflettere quegli anziani che discriminavano Said quando serviva ai tavoli, quei parenti nostalgici di Mussolini che inneggiano al “capitano Salvini”.

Purtroppo, chi le notizie le riporta, le approfondisce e le commenta, finisce sempre più spesso nella trappola di lasciarsi trascinare in quell’arena virtuale che piace tanto agli algoritmi delle piattaforme social, a quei codici invisibili che gestiscono tendenze e guadagni di società che fatturano più del Pil di intere nazioni. È un errore che in molti commettiamo spesso, forse per quel pregiudizio non scritto che ci fa considerare i social network figli di un dio minore, pagine di serie B in cui ci sentiamo liberi di esprimere ogni cosa in modo estemporaneo e istintivo, con linguaggi e modalità che mai utilizzeremmo sulle pagine di un giornale.

Ovvio che organi di informazione tradizionali e social network siano già per definizione due luoghi completamente diversi, ma ormai, vista la massiva diffusione dei secondi, è arrivato il momento – almeno per quanto concerne noi giornalisti – di “abbattere i muri” e trattare lo strumento con la stessa professionalità con cui trattiamo queste pagine quando ci va di mezzo la correttezza e la completezza delle informazioni che diamo. È un confine impercettibile, una linea scivolosa su cui camminiamo ogni giorno: quanto il nostro esprimere un’opinione personale (social) finisce per entrare in conflitto con il mestiere che abbiamo scelto? Un giornalista non può essere “fragolina78”: se tratta un tema su Facebook, Twitter, Instagram, deve far capire a chi legge dove finisce la sua opinione e dove sta riportando una notizia. Non è facile, capita spesso di sbagliare, ma dovrebbe essere la stella polare di chi fa il nostro mestiere. Seid Visin ci aveva lasciato in eredità una storia importante, qualcosa che andava oltre la sua vicenda personale. Valeva la pena raccontarla meglio. Peccato.

 

 

 

 

 

TAG: giornai, Seid Visin, social network
CAT: discriminazioni, Integrazione

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