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Economia

AI e nuove tecnologie: come salvare ancora il capitalismo

Oggi il pensiero economico dominante è quello neoliberista che vorrebbe sempre meno Stato e sempre più mercato, ma con la riduzione del lavoro umano servirà più welfare, non meno. Per questo l’Europa, data per spacciata dalle “pre-potenze”, potrebbe invece essere il futuro.

21 Dicembre 2025

Abbiamo visto come l’avanzare dell’intelligenza artificiale (AI) e delle altre nuove tecnologie possa mettere in crisi l’economia globale. Il sistema economico si basa infatti sulla corrispondenza tra redditi da lavoro (dipendente e autonomo) e consumi. I consumi, intesi in senso lato, ossia includendo anche gli investimenti considerati come “consumi” dilazionati nel tempo, sono la ragione per cui si producono beni e servizi.

La ragione per cui esiste l’economia è dunque quella di soddisfare la domanda delle persone. È pertanto paradossale che i sistemi economici finiscano per fare in modo che siano le persone a essere al servizio dell’economia e non il contrario.

Viviamo in un mondo dominato dal pensiero economico neoliberista, ma questo non significa che viviamo in un mondo realmente neoliberista. Il sistema liberista teorizzato dagli economisti neoclassici è rimasto un modello ideale a cui tendere, ma è lontano dall’economia reale. Potremmo quindi parlare di un “liberismo reale”, allo stesso modo in cui si parlava di “socialismo reale”, perché in entrambi i casi si è cercato di avvicinare i sistemi concreti ai modelli astratti, senza mai riuscire a farli coincidere.

Il liberismo, l’economia di mercato o, più classicamente, il buon vecchio capitalismo, sono stati presentati come i vincitori della sfida novecentesca alle economie pianificate di tipo socialista. In realtà, il sistema che ha prevalso in questa sfida è il sistema misto, che è caratterizzato da un forte intervento statale, comune a tutti i Paesi occidentali (in Italia siamo poco sopra il 50% del PIL, gli Stati Uniti sono di poco sotto).

Il sistema economico vincente è dunque un modello ibrido, figlio dei due sistemi che si sono contrapposti per gran parte del Novecento. Questo perché il capitalismo, lasciato a se stesso, si era infranto sulla Grande Crisi del 1929 ed era stato salvato dall’intervento pubblico ispirato alle teorie di John Maynard Keynes. Il salvataggio, iniziato con il New Deal, si è infine pienamente realizzato con lo sforzo bellico degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, quando il PIL crebbe in modo considerevole e la disoccupazione si ridusse al minimo grazie alla massiccia spesa pubblica.

Probabilmente, quando Keynes formulò le sue teorie aveva in mente l’esperienza britannica durante la prima guerra mondiale. Ovviamente, gli effetti espansivi della spesa pubblica sono visibili solo nei Paesi che partecipano ai conflitti senza ospitarli sul proprio territorio, come l’Impero britannico durante la prima guerra mondiale o gli Stati Uniti durante la seconda. Nei Paesi in cui si svolge la guerra, le distruzioni e le stragi di civili, annullano e rovesciano la crescita del PIL nonostante l’apporto alla produzione dovuto allo sforzo bellico.

Keynes, che economisti liberali come Luigi Einaudi definivano “un Marx in ritardo”, non proponeva una spesa pubblica alimentata perennemente da deficit di bilancio. Suggeriva piuttosto di ricorrere ai deficit di bilancio nei periodi di crisi e di conseguire degli avanzi di bilancio durante le fasi di crescita per accumulare risorse da utilizzare nelle crisi future. In questo modo, la spesa pubblica diventava anticiclica.

Fu solo nel secondo dopoguerra che i seguaci di Keynes spinsero verso un uso più esteso della spesa pubblica per costruire lo stato sociale e diffondere così il benessere economico a strati sempre più ampi della popolazione. Il welfare state delle economie di mercato fu la componente decisiva nel far capitolare le economie pianificate del socialismo reale, incapaci di garantire lo stesso livello di benessere senza il “motore” della crescita economica costituito dal libero mercato.

Fu quindi il sistema misto a prevalere, ma i neoliberisti che erano usciti malconci dalla Grande Crisi, riuscirono a rivendicare questa vittoria attribuendola abilmente al capitalismo tout court. Questa rivincita del liberismo non fu un blitz improvviso, ma l’esito del programma della Mont Pelerin Society, un’organizzazione internazionale composta da illustri economisti, intellettuali e uomini politici che, nel secondo dopoguerra, si riunirono per promuovere il libero mercato e la “società aperta”.

La strategia prevedeva la creazione di think tank, l’influenza sui media e la diffusione sistematica dei concetti chiave del pensiero neoliberista. Un lavoro paziente che permise a queste idee di diventare il riferimento principale dei leader occidentali durante la crisi degli anni ’70, aprendo la strada ai governi conservatori di Margaret Thatcher e Ronald Reagan che segnarono il tramonto dell’epoca d’oro dello stato sociale e l’inizio del revival liberista.

Il modo oggi prevalente di concepire l’economia e il lavoro è il risultato di questa azione persuasiva di lungo periodo. Il pensiero neoliberista è chiamato “ortodosso”, mentre le teorie alternative sono state etichettate come “eterodosse” o “dissidenti”. Curiosamente, il grande avversario da superare è stato proprio il keynesismo che aveva salvato il capitalismo, producendo decenni di crescita diffusa.

Oggi chi si ispira a Keynes, viene bollato come “socialista” dai più moderati e come “comunista” dai conservatori più esagitati. Proprio Keynes per far capire che il liberismo duro e puro era già inadeguato ai suoi tempi, si espresse in questi termini: “Gli uomini pratici, che si credono del tutto liberi, sono schiavi di qualche economista defunto” (frase che ha sempre irritato molto i liberisti).

Cosa accade quando il “vecchio” capitalismo, ripropostoci come “nuovo” dai neoliberisti, incontra l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie in grado di sostituire il lavoro umano? Accade che si accentua ciò che stiamo già osservando da tempo: la concentrazione di ricchezza e potere in poche mani e il conseguente aumento delle disuguaglianze economiche e sociali.

La risposta a questa deriva non potrà essere quella del progressismo “lavorista”, che è in gran parte funzionale al modello neoliberista a cui si oppone, né potrà essere il marxismo, che si è rivelato fallimentare. Dovrà comunque consistere nel ritorno alla prevalenza della politica sull’economia, ovvero degli interessi della collettività nel suo insieme su quelli di alcuni suoi membri. Non si tratta di un’aspirazione velleitaria, ma di prendere finalmente atto che gli interessi dei potentati economici possono non coincidere con quelli dell’intera collettività.
In altre parole, bisogna rendersi conto che il benessere economico di un Paese non si misura con il numero di cittadini facoltosi né con l’aumento della loro ricchezza, ma con la riduzione delle disuguaglianze, livellandole però verso l’alto e non verso il basso.

Quindi sarebbe opportuno agire per ridurre progressivamente il lavoro umano, sostituendolo con il “lavoro artificiale” (AI, automazione e non solo), che è immensamente più produttivo, e garantire alle persone un reddito che consenta di continuare a consumare e risparmiare. Dovremo quindi stipulare un nuovo patto sociale che affronti il tramonto dell’era del lavoro umano e che preveda la ridistribuzione del benessere, salvando ancora una volta il capitalismo con il welfare (il capitalismo sarà anche detestabile, ma è indispensabile).

In un’ottica di questo tipo, l’Europa, tanto vituperata anche perché regno del welfare, potrebbe essere, a dispetto dei tracotanti autocrati, la società del futuro, se solo capisse di stare davvero “dalla parte giusta della Storia”, quella delle libertà, tra le quali la libertà dal lavoro sarà il prossimo importante e inevitabile traguardo.

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Fabio Massimo Rampoldi è autore di Scritti di ALTER EGOnomia, una raccolta di riflessioni sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e sulla ridistribuzione del benessere.

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