Quel libro di Susan Sontag che ci sarebbe d’aiuto, ma che non c’è
Molti nei giorni scorsi si sono soffermati su questo fermo immagine: un barcone stracolmo di migranti, stremati dalla fame, spinti verso un futuro che a molti di loro sembra non raggiungibile, che improvvisamente intravedono all’orizzonte la sagoma di una nave. La salvezza, pensano è vicina, poi comincerà la lotta per una nuova vita. Sarà dura, ma è una sfida.
Quell’immagine, tuttavia, era la proiezione di un domani non raggiungibile. Il solo movimento su quella barca provoca la catastrofe. Poche ore dopo siamo lì a contare i morti, a centinaia, qualcuno a chiedersi perché sia andata così, altri a cercare di dare delle risposte. Tutti con la presunzione di averle.
Molti di noi in quelle ore e dopo di fronte alla quantità insopportabili di morti si sono domandati che cosa valeva la pena dire e pensare. Le risposte si sono collocate su due codici opposti. Da una parte abbiamo detto: L’Europa non può guardare e in ogni caso, guardare è una politica che non ci piace. Dall’altra abbiamo pensato che accadono cose terribili, e che la fotografia ci aiuta a non dimenticare. Ma non abbiamo fatto grandi cose. E questo è ciò che rimane.
C’è un libro di Susan Sontag che consente di dare materia, non dico risposte, alle domande che qualcuno si è posto. Si intitola Davanti al dolore degli altri. Nei giorni scorsi avrebbe avuto un senso riprenderlo tra le mani, trovarlo in libreria, o più semplicemente che qualcuno tra gli intellettuali pubblici del nostro paese avesse avuto la sensibilità di riproporlo. Non è avvenuto. Per oblio, forse, ma anche perché quel libro è semplicemente inesistente nelle librerie fisiche come nei negozi on line.
Dunque quel libro è a inarrivabile. Sarebbe utile leggerlo. Ma non c’è. Sontag in quel libro dice tre cose che richiamo:
1. Un evento diviene reale agli occhi dell’opinione pubblica perché viene fotografato;
2. Un’immagine arriva a noi che non vediamo la scena, ma che ci è chiesto di ricordarla, attraverso una scelta che qualcuno ha fatto e della scelta di quelle immagini noi dovremmo discutere, di come sono proposte;
3. Siamo sospettosi di una narrazione fatta di parole, ma siamo meno guardinghi di una narrazione fatta con le foto, perché alla foto, appunto siamo soliti dare un valore di oggettività.
Le foto degli ultimi giorni non le abbiamo guardate con oggettività. Anche per questo, quel libro inarrivabile di Susan Sontag ci avrebbe aiutato. Se solo fosse stato disponibile.
Alcuni estratti di Susan Sontag, “Davanti al dolore degli altri”, Mondadori, Milano, 2003
Un evento diventa reale – agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto «notizia» – perché viene fotografato. Ma anche una catastrofe di cui si ha esperienza diretta finisce spesso per sembrare stranamente simile alla sua rappresentazione. L’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001 è stato descritto come «irreale», «surreale», «simile a un film», in molte delle prime testimonianze fornite da chi era scappato dalle torri o aveva osservato da vicino quanto stava accadendo. (Dopo quarant’anni di film catastrofici hollywoodiani ad alto costo, l’espressione «sembrava un film» pare aver sostituito la formula con cui i sopravvissuti a una catastrofe erano soliti esprimere l’impossibilità di assimilare in tempi brevi ciò che avevano vissuto: «Sembrava un sogno».)
(…) L’incessante susseguirsi delle immagini (televisione, streaming video, film) domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermo-immagine; la sua unità di base è l’immagine singola. In un’epoca di sovraccarico di informazioni, le fotografie forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare. Una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio. Ognuno di noi ne immagazzina centinaia nella propria mente, e può ricordarle all’istante. Provate a citare la più famosa fotografia scattata durante la Guerra civile spagnola, il miliziano repubblicano «immortalato» dall’obiettivo di Robert Capa nell’attimo in cui viene colpito da un proiettile nemico, e quasi tutti coloro che sanno qualcosa di quella guerra potranno richiamare alla memoria la granulosa immagine in bianco e nero di un uomo in camicia bianca e maniche rimboccate che si rovescia all’indietro su una collinetta, il braccio destro teso dietro di sé mentre allenta la presa sul fucile nel momento in cui sta per cadere, morto, sulla propria ombra. – pag. 15Le fotografie oggettivizzano: trasformano un evento o una persona in qualcosa che può essere posseduto. E benché vengano apprezzate come resoconti trasparenti della realtà, le fotografie sono il risultato di una sorta di alchimia.Spesso qualcosa ha, o sembra avere, un aspetto «migliore» in fotografia. Anzi, una delle funzioni della fotografia è proprio quella di migliorare l’aspetto delle cose. (Di conseguenza, siamo sempre delusi da una fotografia poco lusinghiera.) Abbellire è una delle classiche operazioni compiute dalla macchina fotografica e tende a stemperare la risposta morale a ciò che viene mostrato. Imbruttire, mostrare qualcosa al peggio, è una funzione più moderna: una funzione didattica, che sollecita una risposta attiva. Perché possano denunciare e, se possibile, modificare un certo comportamento, le fotografie devono scioccare. – pag. 70
Non è detto che lasciarsi commuovere sia meglio. Il sentimentalismo, come è tristemente noto, è del tutto compatibile con la propensione alla brutalità o ad atti ben peggiori. (Pensate al classico esempio del comandante di Auschwitz che la sera rientra a casa, abbraccia moglie e figli e si siede al pianoforte per suonare un po’ di Schubert prima di cena.) La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato – se così si può descrivere ciò che accade – a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione. Ma se dovessimo stabilire quali emozioni siano auspicabili, sarebbe forse troppo semplice optare per la compassione. L’immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l’esistenza tra chi soffre in luoghi lontani – in primo piano sui nostri schermi televisivi – e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un’ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere. Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale. – pag. 88
Nella foto di copertina, Susan Sontag by Annie Leibovitz © Annie Leibovitz
Un commento
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In inglese c’è… però perché non lo proponiamo a qualche editore italiano?