Emozioni che muovono le anime. Intervista a Teresa Ciabatti su Sembrava bellezza

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20 Aprile 2021

Teresa Ciabatti è cresciuta. E’ in una meravigliosa età di mezzo che dal suo corpo e dal suo evolvere più intimo si riversa nelle pagine del suo ultimo romanzo “Sembrava bellezza” (Mondadori). Un libro uscito a gennaio e molto atteso, candidato attualmente nella dozzina per il Premio Strega 2021, e che porta, innanzitutto, l’onere di essere il successivo al tanto amato e discusso “La più amata”, del 2017. Qui si ritrova la stessa voce profonda, talvolta provocatoria, esigente, cinica, goliardica ma allo stesso tempo più matura, delicata e clemente.
La protagonista della storia è una scrittrice prossima ai cinquanta, il cui successo di una stagione si sta esaurendo, picco di vita a cui lei tenta invano di aggrapparsi, che si ritrova a doversi prender cura di Livia, bellissima e tragicamente bisognosa di aiuto, sorella di Federica, amica del passato che ricompare prepotentemente dopo trent’anni. La protagonista arranca nel superare la separazione col partner e, soprattutto, nel cercare di riparare un rapporto conflittuale con la figlia.

Ciabatti tiene vivo il filo del tempo, muovendolo avanti e indietro per recuperare le pulsioni che hanno agito nell’ineluttabilità della vita; desideri disattesi o negati, invidie ormai ingiustificate, stantie, pensieri che alimentano le fragilità di tutti e che, se lette, interpretate e attraversate, possono diventare sorgenti di caparbietà. Un libro dove la bellezza dei corpi ha una duplice importanza: prima quella estetica, patinata, facile da riconoscere e difficile da dimenticare, lasciata lì fissata per sempre e, dall’altra parte, quella dello scorrere del tempo, nella sua maniera più imperfetta, che la rimescola nella precarietà e nella perdita.

 

Teresa, nei tuoi romanzi manipoli, tagli, inventi, ti piace rischiare, sei spregiudicata, racconti di emozioni di cui pochi ne ammettono davvero l’esistenza guardandosi allo specchio, ad esempio legittimando l’invidia come emozione di cui non provare vergogna. Come è maturata questa consapevolezza nella scrittura?

E’ stato un percorso umano di crescita, non solo nella scrittura. Quando sono arrivata a Roma da Orbetello e fino a poco tempo fa vivevo vergognandomi di tante cose. Della mia provenienza, di mio padre troppo vecchio, di mia madre che non era raffinata, di essere sovrappeso. Vivevo alterando la percezione di me e  raccontandomi in un altro modo. Ho impiegato tanto tempo per non vergognarmi. Ma in realtà la vergogna è un sentimento bello, è un motore. A un certo punto ho capito che non c’è bisogno di nascondere niente: il cammino umano ha accompagnato il percorso nella scrittura e nel coraggio che serve per essere liberi di essere quel che si è, soprattutto liberandosi dagli schemi che impongono certi modelli sociali. Sarebbe bello se tutti affrontassero la fatica di un coming out, alla stregua di quello sul proprio orientamento sessuale. Serve a dire a noi stessi chi siamo veramente, con consapevolezza e coraggio.

Il tuo punto massimo di coraggio, a livello letterario, penso tu lo abbia toccato con “La più amata”, dove si può trovare un linguaggio spavaldo, cinico e allo stesso tempo anche ironico, che torna anche in “Sembrava bellezza”. Come si arriva a fare un certo tipo di narrazione? Il tuo obiettivo è in qualche modo già prefissato all’origine?

Impiego tantissimi anni a scrivere un romanzo e cestino centinaia di pagine. Il mio non è un flusso di coscienza, niente sfoghi. Scrivere richiede un impegno importante, lo faccio per dodici ore al giorno. Niente mi arriva così d’istinto e di getto. Non credo all’ispirazione, ma all’incaponimento, alla dedizione verso il lavoro, al ragionamento. Poi a me va bene che il lettore non si accorga di questa mia fatica che c’è dietro le pagine, è anche giusto così, lui legge il romanzo finale che è un punto di arrivo.

Punti di arrivo, i tuoi romanzi, in cui il lettore cerca sempre di individuare l’equilibrio tra la realtà e la finzione.

Anche a me, mentre scrivo, questa cosa sfugge un po’ di mano. Se oggi dovessi dire quant’è la percentuale di una e dell’altra non saprei cosa dire, non le distinguo più. Già la memoria risistema un po’ la vita, figuriamoci la scrittura. Io la mia me la sono risistemata così. Ogni scrittore parlando con un alter ego  mette, attraverso la distanza, una realtà diversa dove posiziona sé. Io faccio il contrario: prendo me nella versione più banale, parto dal mio fisico che genera quelle sofferenze e mi allontano da me stessa. Alla fine sono personaggi prevalentemente di fantasia, soprattutto in “Sembrava bellezza”, un po’ meno ne “La più amata”.

In poche righe riesci a raccontare un mondo, un’iperbole, una stratificazione sociale. Ad esempio quando la protagonista di “Sembrava bellezza” vuole arrabbiarsi con la nuova compagna dell’ex marito, ma decide di non farlo perché si accorge che questa è una persona gentile.

Esatto. Io non sono separata ma è proprio quello che potrei vivere io in una situazione del genere.

La protagonista è questa scrittrice tua coetanea e contemporanea, a cui sta sfuggendo il successo. Tu hai paura che il successo possa dissolversi e, nel caso, questo scriverne è stato un modo per esorcizzare la cosa?

No, per niente perché questo è già avvenuto. Il successo de “La più amata” è stato comunque un successo relativo che mi ha portato ad essere al centro dell’attenzione solo per una stagione. Ed è stato molto affascinante: mi hanno cercato per tre mesi, chiedendomi di tutto, anche consigli su come vestirsi per la prossima stagione, poi basta. Il mio oblio dopo il successo breve, a quel punto, è diventato materiale narrativo. Inoltre il mio successo è arrivato a una certa età, dopo i quarant’anni, quindi una volta persa la fama riesco a tornare a quella di prima tranquillamente.

 

Nei tuoi romanzi l’orizzonte temporale è molto lungo e, in questo tempo concedi ai personaggi di fare molta esperienza di rivalsa. E’ questo l’unico strumento che si ha nel tempo per trovare la soluzione alle cose?

Ho capito che alla fine non c’è nessun conto da regolare, nessuna battaglia. C’è un fuoco che si spegne subito, che diventa cenere, perché non c’è nemico, non c’è la guerra. Quello che è nella testa dei miei personaggi sono energie motore di qualcosa, utili a rendersi conto che nessuno si salva. Ci portiamo dentro dei fantasmi creati nella nostra testa, ma ognuno ha la propria sofferenza. Negli anni, come fa la protagonista, invecchiamo i ricordi degli altri come erano decenni prima, ma poi scopriamo che le persone sono migliori di come ce le siamo immaginate noi. Il tempo non protegge nessuno dalla sofferenza. La vita è dolorosa per tutti. Anche le figlie bionde dei Parioli, quando ragazzina sono arrivata a Roma, non sono più bionde e belle. Prendi me: ho provato rabbia, sofferenza e vergogna perché mia mamma aveva nell’armadio solo golfini grigi e blu, mentre le altre mamme delle mie amiche avevano abiti eleganti, ma oggi ho un armadio identico a quello di mia mamma, mia figlia trova nell’armadio quello che trovavo io.

Come pensi di essere tra dieci anni?

Io sono già nella vecchiaia. Questo mi piace molto, d’altronde sono sempre stata indietro, non ho mai tenuto il tempo degli altri. Adesso è la mia fortuna, ma mentre lo vivevo era faticoso. Questo di adesso è il mio tempo, la mia stagione. Sento bene cosa mi piace di me stessa, donna di mezza età.

Cos’è l’istinto materno?

E’ qualcosa che si può esercitare anche sui figli non naturali. Io non l’ho esercitato sempre bene con mia figlia e, analogamente, i miei alter ego nei miei romanzi con i propri figli. Ma ho capito, a questa età, che si può esercitare anche su altri, su sconosciuti. A me piace applicarlo alla nuova generazione di scrittori e scrittrici. Mi incanta osservare i nuovi artisti. Non mi sento superiore a loro, non mi infastidiscono. I giovani scrittori e i rapper mi insegnano molto. Il nuovo, l’arricchimento arriva dalle nuove generazioni.

Beh ti esponi molto promuovendo emergenti nella narrativa, come anche tramite le interviste che fai agli artisti: parli sempre con personaggi che sono sì popolari, ma che in qualche modo rompono gli schemi, emblematici dei nostri tempi. Penso a Bazzi, Josephine Signorelli, i fratelli D’Innocenzo, Achille Lauro, Madame e, tra gli ultimi, lo stylist Nick Cerioni con la sua famiglia arcobaleno. C’è un filo conduttore dietro?

Sì, sento molto far crescere il romanzo del futuro. Sono tutti semi utili a legittimare le diverse identità, ad abbattere stereotipi ed etichette. L’uomo del futuro non è necessariamente un ragazzo o una ragazza, può essere anche un adulto del futuro. Un rinnovamento. Non si può non recepire il cambiamento del mondo, sarebbe struggente.

Tornando alla maternità: la protagonista del libro ha una figlia con cui vive un rapporto conflittuale e che partecipa come concorrente al quiz di Gerry Scotti, quello dove si cade nella botola. In questa cosa c’è qualcosa di scaramantico tra te, Teresa, e tua figlia?

Sicuramente. Ho messo in scena una delle possibilità peggiori. E metto in salvo la protagonista, che si redime esercitando il principio della cura e dell’accudimento verso una persona che non è la figlia naturale, ma che è la persona, in teoria, più lontana da lei.

E’ un po’ la stessa scaramanzia di quando nel 2017, seconda al Premio Strega con “La più amata”, scrivesti sul Corriere della Sera che era come se tu avessi vinto, visto le tante volte in cui avevi già immaginato, e scritto poi in maniera certosina, le emozioni della premiazione?

Quella è una missione. Per noi che non siamo mai stati protagonisti di niente, siamo stati marginali ed abbiamo vissuto di immaginazione. Ad esempio secondo me gli amori non corrisposti ti appagano quanto quelli reali. Il mio reale è stato poco, l’immaginato tantissimo. Tutti quelli che hanno una vita piatta e grigia danno tanta importanza all’immaginazione, che vale come esperienza. Ti insegna a come affrontare il mondo. Io sono abituata a farmi il mio scenario alternativo, col mio corpo, la mia persona, i miei capelli in una determinata scena, non so se è una patologia, ma poi è diventato uno strumento narrativo. Prendere il proprio corpo e metterlo in uno scenario in cui non potrà mai essere: mi regalo parole e gesti che nella vita reale non mi appartengono, mi dò la possibilità di una vita alternativa, dove idealizzo situazioni e personaggi, cercando di rendere universali anche gli aspetti negativi. Prima di essere strumento narrativo è stato strumento di vita, di soluzione: io da bambina ero quella che volteggiava sopra la testa del ballerino più bello di tutti, ma in realtà non è mai stato vero. E’ verosimile.

Nel 2017, appunto, sei arrivata in pompa magna al Premio Strega, finalista classificata seconda. Adesso sei nella dozzina dei candidati allo Strega 2021. Come ti fa sentire questa cosa?

E’ un privilegio. Già essere nei dodici mi fa sentire una privilegiata. Mi godo questo momento.

I tuoi amici del passato, quelli del liceo ai Parioli o quelli di Orbetello, ti hanno mai invitata a una di quelle pizzate di classe che si fanno venti o trent’anni dopo?

Mai invitata. Ci ho provato io una decina di anni fa, ma con esito negativo.

Scusa, ma dopo “La più amata” qualcuno si è fatto vivo?

No. Sospetto che non si ricordino di me. Mi è capitato di rincontrare un ragazzo della scuola più grande di me, io sapevo tutto di lui, era un riferimento per me, sapevo dove abitava, quanti fratelli e sorelle aveva. E lui non si ricordava di me. La dimenticanza degli altri è molto dura, ma è meravigliosa, è un bacino narrativo. Nessuno mi può fare i complimenti perché nessuno si ricorda.

Facciamo un gioco: Joyce Carole Oates mi ha appena mandato un messaggio e mi ha detto che ti vuole fare causa perché usi la sua immagine sui social e perché hai dichiarato di aver copiato alcune sue cose. Cosa le rispondi?

Ma io amo anche la causa che mi vuole fare Oates, nel caso. Dai suoi libri si capisce tutto. Lei è il mio riferimento letterario principale.

Mi consigli due romanzi italiani attuali da leggere?

Suggerisco “Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo, un libro incredibile, straordinario, originale, unico, vive nella contemporaneità ed è portatrice di un tempo arcaico e “Tre Madri” di Francesca Serafini, un libro sulla maternità – vissuta, realizzata, mancata –  che centra perfettamente il cuore de “La Promessa” di Dürrenmatt, già imitato invano da tanti. Serafini invece lo ha capito benissimo.

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CAT: Editoria, Letteratura

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