Svolta Amazon in stile Uber: impiegare i cittadini, e poi i droni, come postini

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20 Giugno 2015

La notizia arriva dagli Usa e raccoglie subito l’entusiasmo e l’ammirazione di chi è stufo della vecchia e desueta economia europea. Il leader mondiale dell’e-commerce, Amazon, starebbe per sferrare un grosso colpo al sistema logistico: con una applicazione stile Uber il Ceo Jeff Bezos vorrebbe trasformare normali cittadini in fattorini capaci di portare, a pagamento, pacchi in modo rapido e sicuro senza eccessive perdite di tempo. L’innovativo servizio si chiamerà “On My Way” e Amazon vuole usarlo non per affidare all’utente l’intera spedizione (partendo da un centro logistico sarebbe problematico) ma per agevolare la capillarizzazione delle consegne nei grandi centri urbani, sfruttando gli agili mezzi a disposizione dei cittadini.

La “genialata” è però in realtà l’ennesima trovata per illudere che l’economia della condivisione sia un valore e soprattutto che qualcuno, al di fuori dei manager dell’azienda, possa davvero arricchirsi su questo genere di attività. In realtà quella di Amazon è l’ennesima mossa per ridurre le spese e “fare la cresta”, in attesa che in un futuro non molto lontano siano – come ormai è notoriamente nei programmi – i droni a fare le consegne, bypassando qualsiasi tipo di manodopera umana. Un modello di business che ha fruttato al suo ideatore, Jeff Bezos, un patrimonio stimato in oltre 30 miliardi di dollari: più della Legge di Stabilità approvata nel 2014 in Italia, Paese tra le prime dieci economie del mondo, o ancora più di quanto ci rimetterebbero le casse del Belpaese in caso di Grexit.

In cambio di pochi spicci (se il modello è quello di Uber, c’è da giurarci che sarà così) Bezos, che esattamente 20 anni fa, nel luglio 1995, ha fondato la più grande libreria (online) del mondo, potrà così incrementare un business che ha portato nel 2014 la società, che proprio lo scorso maggio è diventato il primo retailer del mondo (davanti a Wal-Mart) con 182 milioni di utenti nel mese, ad avere una valutazione di 150 miliardi di dollari. Un’impresa, in un settore come l’e-commerce dove i margini di profitto sono piuttosto ridotti, tant’è vero che i 75 miliardi di fatturato del 2013 hanno fruttato “appena” 274 milioni di utili. Ma a beneficio di chi? Non di certo dei lavoratori, sempre meno e mal tutelati, tanto da considerare non così assurdo coinvolgere gli stessi cittadini, a prezzi ancora ignoti e con garanzie ancora minori, secondo l’agile logica della sharing economy.

Basti pensare innanzitutto alle condizioni di lavoro, che diversi economisti statunitensi hanno definito “spietate” per non dire “tayloriste” (cioè ispirate all’accurato sistema di controllo manageriale inventato da Frederick Winslow Taylor nell’Ottocento). In Pennsylvania, ad esempio, gli impiegati non iscritti al sindacato hanno dovuto lavorare fino a qualche tempo fa in magazzini con temperature talmente elevate che alcune ambulanze stazionavano regolarmente nel parcheggio, come riportato dalla stampa Usa, che ha anche rilevato i 6.000 licenziamenti effettuati neanche un mese fa in oltre 50 centri di distribuzione sparsi nel Paese. Ci sono poi casi particolarmente eclatanti come quello di Pam Wetherington, donna di mezza età che lavorava nel centro del Kentucky, dove rimediò fratture a entrambi i piedi a causa di turni impossibili sul pavimento in cemento, senza ricevere alcun compenso dall’azienda una volta costretta ad abbandonare il posto di lavoro. O quello di Jennifer Owen, licenziata in tronco al rientro da un periodo di convalescenza autorizzato dalla società. L’onda lunga del disagio è arrivata anche in Europa, soprattutto nel Regno Unito e in Germania: nel Paese teutonico, secondo mercato mondiale di Amazon, si sono segnalati diversi scioperi dopo che gli impiegati hanno lamentato qualche anno fa di essere controllati da agenti privati sul posto di lavoro.

Inizialmente Amazon aveva avuto l’indubbio merito di dare una grande opportunità alla piccola editoria, i cui prodotti diventavano più facilmente reperibili. Ma il crescente successo del “Leviatano” ideato da Bezos, uno che sin dall’inizio aveva l’ambizione di crescere e diventare sempre più grande, ha fatto sì che Amazon abbia finito per accumulare uno strapotere nei confronti di tutti gli editori, piccoli e grandi, inghiottendo l’industria del libro. E facendolo di proposito, come dimostra il “Progetto Gazzella”, voluto a tutti i costi dal guru nato ad Albuquerque per far fuori i piccoli editori che non rispettavano le stringenti condizioni di Amazon su prezzi e pagamenti. “Dobbiamo porci nei confronti dei piccoli editori come un ghepardo che insegue una gazzella malconcia”: il nome dell’operazione  fu ispirato a queste parole, pronunciate da Jeff Bezos al suo staff, e raccolte in un libro dal giornalista Brad Stone.

Amazon l’anno scorso ha totalizzato negli Stati Uniti oltre il 65% delle vendite digitali (un terzo del mercato librario complessivo): mentre vent’anni fa negli States si contavano 4.000 librerie, oggi la cifra risulta più che dimezzata, con la conseguente perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Queste non sono supposizioni ma fatti, come raccontato in un articolo del 2012 su The Nation, dal titolo “The Amazon Effect”. L’analisi, che definisce Bezos come “un tipo a cui lo slogan ‘piccolo è bello’ non è mai piaciuto”, rileva come nel 1994 – prima della creazione di Amazon – i cittadini statunitensi avessero acquistato oltre mezzo milione di libri per un valore totale di 19 miliardi di dollari, con ben 17 bestseller che superarono il milione di copie vendute. La casa editrice Barnes & Noble deteneva allora il 25% del mercato, con oltre 1.300 negozi in tutto il Paese: nel 2011 la Barnes & Noble ha però dichiarato fallimento, lasciando a casa migliaia di lavoratori.

Gli anni immediatamente precedenti al crack erano coincisi con quelli del boom della creatura di Bezos: nel 2007 le vendite di ebook hanno segnato un +400% rispetto all’anno precedente, e nel 2009 il Kindle di Amazon, primo e-reader sul mercato internazionale, ha venduto 3 milioni di pezzi. Tutto questo non ha però dato i vantaggi sperati al mercato del lavoro. Al contrario, la situazione è stata perfettamente sintetizzata da una ricerca del 2013 condotta dall’Institute of Local Self-Reliance: mentre i comuni negozi (quelli della vecchia e superata economia…) danno – o per meglio dire davano – lavoro a 47 persone ogni 10 milioni di fatturato, Amazon impiega appena 14 persone per arrivare alla stessa cifra. E tra un po’ neanche quelle: ci penseranno direttamente i cittadini, in attesa dei robot .

TAG: amazon, droni, lavoratori
CAT: Editoria, Sharing economy

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