Le miniere di Bitcoin inquinano l’Iran e lo lasciano al buio
Enormi black-out, da una parte all’altra dell’Iran, portano da settimane la popolazione esausta e adirata a protestare nelle piazze di Tehran, Rey, Shiraz, Amol, Gorgal. Gridano “Morte al dittatore” e si lamentano della corruzione e dall’inettitudine di un governo che sta mettendo in ginocchio il paese: carenza d’acqua, condizioni disastrose dei lavoratori dell’industria petrolifera, salari di dipendenti pubblici che non vengono pagati e soprattutto una devastante crisi energetica.
Rouhani (che da agosto sarà sostituito dal successore Ebrahim Raisi, votato con un’affluenza alle urne di meno del 50% degli aventi diritto) si scusa e promette che risolverà il problema nelle prossime settimane, ma il consumo di energia nel paese sta ampiamente superando la capacità di produzione delle centrali elettriche iraniane.
La crisi è in atto già da diversi mesi e alla sua base, oltre alla siccità che ha colpito il settore idro-elettrico, c’è l’altissimo consumo energetico delle miniere di Bitcoin.
Negli ultimi anni, infatti, l’Iran è diventato uno dei paesi maggiormente dedicato al mining di criptovalute, producendone, si stima, circa il 4,5% del totale mondiale. Dal 2019 l’attività è ufficialmente riconosciuta dal governo che, attraverso una tassa sul consumo, contava di riempire le casse dello Stato. In particolare, le miniere nel sud-est del paese sono appaltate ad aziende cinesi e l’energia elettrica viene venduta alla Cina a prezzi particolarmente vantaggiosi.
Visti i numerosi black-out, a maggio Rouhani ha annunciato un divieto di quattro mesi, valido fino al 22 settembre, di estrazione di criptovalute, esteso teoricamente anche agli impianti senza licenza. A quanto pare, tuttavia, l’azione, più di facciata che altro (essendo la produzione illegale stimata all’85%), non è bastata. Del resto non è chiaro se questo divieto coinvolga anche le miniere appaltate alla Cina, soggette ad accordi a lungo termine. Nel proprio territorio, comunque, la Cina ne ha bloccato la produzione, provocando a maggio un sonoro crollo del mercato.
Gli effetti dei blackout in Iran si sono rivelati trasversali, riversandosi tanto sull’utilizzo privato dei cittadini quanto su quello produttivo e addirittura sulle strutture mediche che necessitano di alimentare congelatori per i medicinali (o i vaccini).
Una miniera di Bitcoin è un immenso capannone dentro al quale infinite file di server illuminati e di ventilatori per raffreddare i computer restituiscono l’inquietante fascino di qualche film di fantascienza. Spesso si trovano vicino a fonti di energia rinnovabile, sottraendo in questo modo spazio ed energia alle comunità locali.
Nelle nostre città sempre più smart e sempre più green, ci si immagina che tutto ciò che non si vede non abbia né prezzo né impatto. Da secoli il benessere di una parte di mondo poggiava su una cloaca di colonie lontane abbastanza da essere invisibili: il bagliore di una moneta d’oro permette facilmente di dimenticare le miniere e il colonialismo che l’hanno forgiata.
Da poco abbiamo re-imparato che dietro il manzo del supermercato ci sono un animale allevato probabilmente in spazi minuscoli e immense monoculture per nutrirlo. Greta Thumberg ci ha ricordato che la benzina delle nostre macchine e degli aerei che prendiamo (o prendevamo) troppe volte all’anno per un weekend fuori porta hanno una grave ricaduta sull’ambiente, e forse abbiamo vagamente capito che una maglietta a 5 euro forse ha sfruttato il lavoro e la vita di un ragazzino nel mezzo dell’Asia. Banalità.
Siamo portati a credere però che una macchina elettrica non inquini, in quanto effettivamente non inquina più di tanto là dove viene utilizzata: Europa, Stati Uniti, i soliti noti. La consapevolezza del fatto che per estrarre il litio si devastino territori in Cile, Bolivia e Argentina è abbastanza vaga e lontana da poter non essere presa in considerazione. Il litio è usato in particolare per i veicoli elettrici ma anche per le batterie di smartphone e computer. Per fornire qualche dato, la produzione annua fra il 2008 e il 2018 è aumentata da 25.400 a 85.000 tonnellate. Il maggior estrattore, per ora, è l’Australia, che dispone di miniere. I paesi del Sud America, invece, detengono enormi quantità di litio in profondità, sotto i deserti di sale: qui le tecniche di estrazione prevedono piscine evaporative con un elevato impatto in termini di produzione di rifiuti chimici tossici e di consumo di acqua, cosa che ha comportato la migrazione di pastori di lama e di coltivatori di quinoa che vivevano in quelle terre da secoli. A gestirle e a beneficiarne sono in particolare Cina e Germania. Inoltre, elementi inquinanti come il cobalto, il nickel e il manganese renderanno lo smaltimento molto più complesso rispetto alle batterie tradizionali.
Lo stesso vale per tutto ciò che è virtuale: secondo i dati del Global Carbon Project, il Web è stimato come “quarta nazione” al mondo in termini di emissioni di CO2 (circa 1.850 milioni di tonnellate in un anno) e di consumo energetico, dopo Cina, Stati Uniti e India.
E ovviamente, lo stesso vale anche per le criptovalute. Secondo Nature, i livelli attuali di estrazione di Bitcoin provocherebbero un aumento di gas serra nei prossimi tre anni di 130 milioni di tonnellate. L’estrazione di un solo Bitcoin comporta un consumo di energia equivalente a quello di 24 appartamenti in un anno. Nel 2020 l’impiego di energia a questo scopo si aggirava sugli 80 Terawatt/h di elettricità. Nel 2021, secondo le stime di Cambridge, è salito a 128 Terawatt/h: lo 0,59% del consumo totale di energia a livello mondiale. Se il sistema di estrazione di criptovalute fosse una nazione sarebbe al 29° posto fra i grandi consumatori di energia del pianeta. Per dare dei riferimenti, in tutto il 2019, la rete elettrica principale dell’Australia ha utilizzato 192 Terawatt/h e l’intera Argentina ne utilizza “solo” 125 Terawatt/h. L’impatto in termini di CO2 all’anno è, per ora, di 37 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda i sistemi di pagamento, una transazione BTC consuma quanto 600.000 transazioni Visa.
Si stanno cercando protocolli energetici per renderli un po’ più sostenibili in futuro, ma è utile chiedersi se ne valga la pena.
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