America

Diversità, equità ed inclusione sotto attacco: così l’America di Trump sta smantellando il futuro

Tra tagli miliardari ai finanziamenti e parole bandite, l’attacco di Trump ai programmi “DEI” va oltre la retorica politica, mettendo a rischio diritti fondamentali, ricerca scientifica e cooperazione internazionale.

3 Maggio 2025

Appena insediata, una delle mosse più clamorose messe a segno dall’amministrazione Trump è stata la promulgazione dell’ordine esecutivo che congelava molti dei fondi destinati alla ricerca scientifica. Dopo attimi di incertezza sulle ragioni di questa decisione, è stato confermato che il blocco colpiva tutti i programmi legati all’ambito “DEI” – sigla anglofona per diversità, equità ed inclusione. Secondo quando riportato nell’Ordine Esecutivo 14151, firmato il 20 gennaio dal Presidente Trump, questi programmi rappresentavano un “immenso spreco pubblico” ed una “vergognosa discriminazione”, retaggio della precedente amministrazione Biden, accusata di radicalità, illegalità ed immoralità. In parallelo, l’Ordine Esecutivo 14169, volto a “rivalutare e riallineare” gli aiuti esteri, sospendeva di fatto gran parte degli interventi umanitari finanziati dagli USA.

Quando i tagli temporanei diventano permanenti

In un primo momento, la giudice Loren L. AliKhan era riuscita a bloccare temporaneamente la sospensione dei fondi federali, che riguardano concretamente settori come la ricerca clinica, l’educazione o la giustizia ambientale. Questo intervento ha alimentato la speranza che l’iniziativa presidenziale fosse incostituzionale o comunque irrealizzabile. Invece, nel giro di pochi giorni le conseguenze si sono fatte sentire, colpendo vari colleghi impegnati nella ricerca sociale e nel settore umanitario ampiamente sostenuto da USAID, il cui budget è stato decurtato del 90% (circa 60 miliardi di dollari).

LinkedIn si è riempito di profili con l’etichetta verde “open to work”. A ruota sono arrivate comunicazioni urgenti che, con effetto immediato, revocavano finanziamenti a progetti su diversità, inclusione e parità di genere. Alcune comunicazioni chiarivano che la definizione di inclusione comprende, ma non si limita a, età, disabilità, etnia, religione e orientamento o identità sessuale. Il tutto lasciando un grande punto interrogativo: cosa fare con i progetti già avviati? E chi garantirà la sopravvivenza delle piccole organizzazioni della società civile che dipendono da questi fondi?

Uno scontro culturale precedente all’Ordine Esecutivo

La verità è che il ridimensionamento dei programmi DEI non è iniziato con l’ordine esecutivo di Trump. Già prima delle ultime elezioni americane, alcune grandi aziende avevano cominciato a fare marcia indietro, prendendo come riferimento una sentenza della Corte Suprema del 2023. Questa aveva bollato i programmi di “affirmative action” nelle università come una violazione del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione sull’uguaglianza davanti alla legge – lo stesso pensato per proteggere da razzismo, omofobia e sessismo.

Forbes ha documentato il progressivo smantellamento dei programmi aziendali dedicati a diversità ed inclusione nell’ultimo anno. Giganti come Ford, Walmart, McDonald’s, Meta e Amazon hanno via via eliminato i criteri di diversità nelle assunzioni, interrotto percorsi formativi per l’inclusione aziendale e abbandonato sia i meccanismi di monitoraggio delle disuguaglianze che la raccolta di dati demografici dei dipendenti. Le multinazionali hanno operato un abile “rebranding”, raccontando questo passo indietro come l’abbandono di pratiche obsolete a favore di nuove priorità. È il caso di IBM, che ha recentemente deciso di dare precedenza ai fornitori con lo status di veterano, e non più considerando genere o etnia.

Il mito della meritocrazia

“Le politiche di diversità, equità e inclusione riducono l’importanza del merito individuale (…) nella selezione delle persone per lavori e servizi”, ha dichiarato recentemente dalla Missione USA presso le Agenzie ONU a Roma. Un’interpretazione che non suonerà nuova in Italia, dove abbiamo addirittura un Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Eppure, strumenti correttivi come l’“affirmative action” – rivolte a gruppi storicamente discriminati – o le “quote rosa” – che a cadenza regolare ricompaiono nel dibattito pubblico nostrano – esistono proprio affinché un giorno non ce ne sia più bisogno. Servono a correggere squilibri storici e strutturali che continuano a penalizzare interi gruppi sociali. Parlare di “merito” in un contesto segnato da disuguaglianze sistemiche è una finzione utile solo a chi parte già avvantaggiato e può far passare i propri privilegi per puro talento. Il mito della meritocrazia diventa così una giustificazione per mantenere lo status quo: se ci sono meno persone razializzate laureate è perché magari non portate per lo studio o se mancano donne in un dibattito televisivo è che non ce n’erano di competenti.

Le parole sono importanti (e anche i numeri)

Il 25 aprile è stata un’occasione per ricordare quanto sia facile perdere i diritti conquistati con fatica, anche grazie agli Alleati. Tra questi diritti, uno dei più preziosi è proprio la libertà di espressione tanto rivendicata dall’amministrazione repubblicana, la stessa che in questi mesi ha stilato una lista nera di parole da eliminare dai documenti ufficiali. Si spazia da termini che sappiamo spaventare i trumpiani come “femminismo”, “crisi climatica”, “LGBT” o “razzismo” a termici generici come “donne”, “scienza climatica”, “orientamento” o “Nativo Americano”.

In alcuni casi si sfida il paradosso: anche riferimenti all’equity in ambito finanziario e all’Enola Gay (l’aereo che bombardò Hiroshima) sono finiti nel mirino anti-DEI. Ma le conseguenze reali di queste epurazioni semantiche si prospettano devastanti. Senza i fondi americani, Save The Children stima che 1,8 milioni di bambini perderà l’accesso all’educazione. Il Guttmacher Institute prevede oltre 4 milioni di gravidanze indesiderate e più di 8.000 decessi legati alla gravidanza solo nel 2025. Il Programma delle Nazioni Unite per HIV/AIDS (UNAIDS) teme un aumento del 400% dei decessi da AIDS.

Anche se nel 2028 dovesse cambiare la linea politica dell’amministrazione, i danni sarebbero incalcolabili. Ad esempio, il CDC – organo centrale per la sanità pubblica americana – ha già eliminato interi dataset contenenti dati demografici fondamentali per monitorare l’incidenza delle malattie nelle diverse comunità. Anni di ricerca scientifica si sono persi per sempre.

Il soft power come interesse strategico

Mentre molti sostenitori di Trump esultano per questi tagli, visti come un risparmio per il contribuente americano, la realtà è ben più complessa e questa cieca semplificazione si rivela terreno fertile per la disinformazione.

Il soft power – la capacità di influenzare attraverso cultura e cooperazione – è colonna portante per una superpotenza. Gli investimenti in sviluppo, salute, educazione e diritti umani non sono opere di beneficenza: sono leve strategiche che per decenni hanno consolidato un’immagine positiva degli USA nel mondo, prevenuto conflitti e rafforzato alleanze. Rinunciarvi non è solo un danno umanitario ma un grave errore geopolitico.

La ritirata americana aumenta la competizione per risorse già limitate, aprendo spazi per potenze straniere ostili ai valori democratici o per attori commerciali senza scrupoli, che non hanno ormai alcun incentivo a ridurre l’impatto sociale, ambientale o economico delle proprie attività. E il precedente che si sta creando è destinato a cambiare gli equilibri globali.

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