America

USA 2016, il gran rifiuto di Joe Biden

22 Ottobre 2015

Alla fine si è tirato indietro: Joe Biden ieri ha formalmente annunciato che non si candiderà per la conquista della nomination democratica. Una notizia pervenuta in extremis, dopo mesi di rumores che davano l’attuale vicepresidente sempre più prossimo alla discesa in campo. Eppure tutto si è concluso in un nulla di fatto. E di avvisaglie – col senno di poi – possiamo dire ce ne siano state.

Innanzitutto la sua esasperante indecisione, che l’ha portato a pronunciarsi definitivamente soltanto all’ultimo momento. Poi, il fatto che Obama abbia recentemente paragonato sé stesso a Ronald Reagan e Hillary a Bush padre: quasi a voler accreditare l’ex first lady quale proprio successore. Affermazione singolare, visto che tra i due i rapporti non sono mai stati idilliaci. Segno dunque che il presidente si fosse probabilmente già rassegnato alla decisione del proprio vice: quel vice che – secondo i beninformati – avrebbe visto concorrere volentieri pur di mettere i bastoni tra le ruote alla sua storica nemica.

E d’altronde le premesse per scendere in campo c’erano anche. Innanzitutto la crisi dei consensi registrata da Hillary a causa dell’Emailgate e della concorrenza di Bernie Sanders. In secondo luogo, diversi sondaggi davano risultati discreti per il vicepresidente. Senza contare poi la possibilità,ventilata da tempo, di potersi giocare la carta di un ticket con  Elizabeth Warren, per cercare di creare una convergenza tra moderati e radicali, che si rivelasse più solida di quella attualmente tentata – senza troppo successo – dall’ex first lady.

Attenzione: questo non significa che allora la strada per Joe si sarebbe rivelata in discesa. Di ostacoli ne avrebbe difatti incontrati. E neanche pochi. E’ un noto gaffeur. Ha un feudo elettorale (il Delaware) di fatto irrilevante. Vanta inoltre una vera e propria specializzazione nei fallimenti alle primarie (fu sconfitto malamente sia nel 1988 che nel 2008): se non fosse stato per Obama, la Casa Bianca l’avrebbe vista solo in gita turistica.

Sennonché, delle chances le avrebbe comunque avute. E adesso serve a poco mettersi a elucubrare sulle motivazioni della sua scelta: sia che si tratti di questioni famigliari o politiche (qualcuno dice si sarebbe scoraggiato dopo la vittoria riportata da Hillary nel dibattito televisivo di Las Vegas; per altri avrebbe pesato la sua reticenza nell’operazione condotta per l’uccisione di Bin Laden).

Come che sia, la decisione di Biden permette una serie di considerazioni abbastanza rilevanti. Nella fattispecie, due: una particolare e una più generale.

In primo luogo, l’uscita di scena di Joe mette chiaramente in luce un fatto quasi ovvio: l’ormai scontata vittoria della nomination democratica da parte di Hillary. Una Hillary il cui maggiore rivale (Bernie Sanders) non ha la minima possibilità di farcela: per quanto abile, è da escludere difatti che un socialista possa sedere (almeno nel breve termine) all’interno dello Studio Ovale. Per quanto riguarda poi gli altri sfidanti, stendiamo un velo pietoso: comparse assunte per dare parvenza di democrazia a un’investitura dinastica. Un’investitura che dunque impedirà alla Clinton di temprarsi all’interno dello scontro elettorale. Un dato che potrebbe rivelarlesi fatale, non avendo l’ex first lady grande dimestichezza nella dialettica in seno all’agone politico (si pensi solo alle primarie del 2008, quando il suo presunto diritto ereditario alla nomination fu spazzato via da Barack Obama). In quest’ottica sono allora molto più avanti i candidati repubblicani: che saranno anche troppi, rissosi e in molti casi beceri, ma che non hanno stavolta dato adito a investiture feudali (si vedano solo gli attacchi che deve sorbirsi Jeb Bush giornalmente dai suoi rivali).

In secondo luogo, il “caso Biden” evidenzia più in generale un problema strutturale interno al Partito Democratico. Un partito che non è stato assolutamente capace di rinnovarsi sul fronte generazionale e che si è concentrato pressoché esclusivamente su candidati ultrasessantenni (nonché rappresentanti di una politica vecchia). Un partito che – dopo la rivoluzione apportata da Obama – sembra sempre più volersi riposare sugli allori, rispolverando vecchi ruderi ormai elettoralmente inservibili (non dimentichiamo che qualche settimana fa, a fianco dei nomi di Clinton, Biden e Webb, il New York Times ventilò ipotesi di candidatura da parte di John Kerry e Al Gore). Un partito vecchio. Che non sembra trovare una via d’uscita a questo problema, imbrigliato – com’è – da un establishment soffocante: un establishment che trova in Bernie Sanders null’altro che un catalizzatore, per incanalare la protesta e il malcontento dei radicali.

I media (soprattutto europei) salutano oggi Hillary come il nuovo presidente degli Stati Uniti. Purché non faccia la fine di Kerry nel 2004. L’aristocratico liberal, vincitore nei sondaggi e abbattuto nelle urne.

 

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