
Geopolitica
Kepel a Repubblica: I sauditi vogliono la fine di questo Iran, ma temono che diventi un concorrente sul petrolio
Gilles Kepel, intervistato da Ainis Ginori per Repubblica, ricostruisce le conseguenze di lungo periodo e di ampia portata dell’attacco israeliano all’Iran.
«L’Islam politico è finito». Con questa affermazione netta, Gilles Kepel – tra i maggiori esperti europei di mondo arabo e radicalismo islamico – apre la sua intervista a la Repubblica, in cui delinea uno scenario medio-orientale profondamente trasformato. Dopo cinquant’anni in cui l’islamismo ha rappresentato una forza ideologica capace di mobilitare masse, rovesciare regimi e produrre ondate jihadiste globali, oggi quel ciclo si è chiuso. Ma non per questo la regione è più stabile.
Kepel mette in guardia da un errore di prospettiva: «La fine dell’ideologia non coincide con la fine della rabbia». Al contrario, il vuoto lasciato dal declino dell’islamismo – dai Fratelli Musulmani a Daesh – viene occupato da nuove forme di competizione tra potenze regionali. In particolare, l’esperto sottolinea la centralità della frattura tra sciiti e sunniti: l’Iran da un lato, le monarchie del Golfo dall’altro, impegnate in una guerra a bassa intensità che si combatte per procura in Siria, Iraq, Libano e Yemen.
«Teheran è isolata ma ancora attiva», spiega Kepel. Grazie a una rete di milizie sciite e alla sua influenza religiosa, l’Iran esercita un ruolo destabilizzante ma strutturato. Le monarchie sunnite, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, cercano di contenerne l’espansione attraverso un mix di interventismo militare, alleanze tattiche (come l’apertura verso Israele) e proiezione culturale. Ma, osserva Kepel, il loro rapporto con l’Iran è più complesso di quanto sembri.
«Il crollo del regime degli ayatollah in Iran – afferma Kepel nell’intervista a Repubblica – preoccupa più di quanto si ammetta nei palazzi del Golfo. Un Iran post-teocratico, con accesso pieno ai mercati e alla tecnologia, tornerebbe competitivo sul piano petrolifero, minacciando l’egemonia energetica saudita». In questo paradosso si misura tutta la fragilità dell’equilibrio regionale: l’avversario è utile finché resta debole e contenuto.
Accanto a questo scontro tra potenze, Kepel evidenzia il ritorno sulla scena di un nazionalismo autoritario che usa la religione come strumento, non più come orizzonte ideale. «La religione oggi serve ai regimi per rafforzarsi, non per cambiare il mondo», dice. La Turchia, seppur in difficoltà, continua a coltivare ambizioni egemoniche in Nord Africa e nel Caucaso. Israele sfrutta la polarizzazione anti-iraniana per stringere patti economici con i Paesi sunniti. E l’Europa? Rimane ai margini, priva di una strategia coerente.
Secondo Kepel, l’Occidente commette un errore grave se crede che la minaccia islamista sia archiviata. «La rabbia sociale resta, soprattutto tra i giovani delle periferie arabe ed europee. E può riemergere sotto forme nuove, imprevedibili, slegate da ogni progetto politico». Il rischio è che, mentre l’ideologia si dissolve, la violenza sopravviva come linguaggio residuale del conflitto.
Il messaggio è chiaro: «Non c’è più un’utopia islamista da combattere, ma una geografia instabile da comprendere». Per l’Europa, ciò significa dotarsi di una politica estera autonoma, capace di leggere le faglie del mondo arabo contemporaneo non solo come minaccia, ma come realtà complessa da cui dipendono sicurezza, energia e migrazioni. Ignorarla, conclude Kepel, è un lusso che non possiamo più permetterci.
Immagine di copertina, Gilles Kepel, wikimedia commons
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