
Geopolitica
Ma è corretto dire che Putin è un “dittatore”? Non proprio
Chiariamo il linguaggio per chiarire il pensiero.
24 Maggio 2025
Ma è corretto dire che Putin è un dittatore? Al netto di torti e ragioni, il conflitto ucraino vede davvero uno scontro fra democrazia europea e dittatura russa? Risposta breve per entrambe le domande: NO.
Le parole sono importanti, e siccome Wittgenstein diceva che compito della filosofia è chiarire il linguaggio, proverò a chiarire la questione attingendo dalla letteratura scientifica. Avviso che sarò estremamente sintetico (data la vastità dell’argomento).
Innanzitutto è importante partire dalla distinzione tra democrazia formale (quella scritta “sulla carta”) e democrazia reale (quella che realmente c’è). Dobbiamo al Marx della “Questione ebraica” la prima formulazione esplicita di questa distinzione, che poi è entrata nel linguaggio politologico e giuridico, anche “borghese”.
La democrazia FORMALE (nella sua versione moderna) è un sistema costituzionale e parlamentare che garantisce diritti politici individuali e universali, uguaglianza giuridica e giudiziaria, separazione e pluralismo dei poteri. In essa, le minoranze responsabili delle decisioni pubbliche non seguono il proprio arbitrio ma sono emanazione legittima e rappresentativa di maggioranze popolari, che a loro volta hanno strumenti per controllare, criticare e sostituire quelle minoranze, affinché siano sempre rappresentative e mai autoreferenziali.
La democrazia REALE è invece l’insieme delle condizioni sociali e materiali che consentono al meccanismo della democrazia formale di funzionare davvero nella sua rappresentatività. [Tralasciamo qui la questione della democrazia diretta.]
Ora, c’è stato un periodo (in particolare nell’esperienza europea del secondo Novecento), in cui le condizioni sociali e materiali hanno consentito lo sviluppo di un grado decente o soddisfacente di democrazia reale.
Ciò si doveva a diversi fattori: una fase storica di riduzione delle disuguaglianze economiche; una congiuntura internazionale favorevole; il collante tra istituzioni e partecipazione popolare fornito dai partiti storici di massa; l’esercizio della democrazia “orizzontale” (Bobbio); la forte sindacalizzazione della classe lavoratrice, favorita dal modello fordista di produzione.
Negli ultimi 30 anni, però, la maggioranza degli studiosi è concorde sul fatto che nelle democrazie occidentali si è imposto un sistema di potere che impedisce lo svolgimento reale della democrazia, pur mantenendone l’involucro formale. Si tratta di un regime stabile attraverso il quale minoranze elitarie, in modo sistematico, continuativo ed efficace, esercitano il proprio arbitrio indisturbato al riparo dalla domanda di rappresentanza delle maggioranze popolari.
Ciò è reso possibile da diversi fattori: l’aumento delle disuguaglianze economiche e l’accentramento del potere finanziario; una conseguente concentrazione del potere mediatico; il declino storico della mediazione partitica e la spettacolarizzazione della politica; la sostanziale sottomissione della politica al potere economico; l’aumentata passività delle masse popolari; l’arretramento della resistenza sindacale.
I politologi hanno proposto una terminologia molto varia per descrivere le democrazie-occidentali-ormai-solo-formali: post-democrazie (Crouch), poliarchie (Dahl), tecnocrazie (Ellul), sondocrazie (Rosanvallon). Io continuo a preferire il termine classico “plutocrazie” (“governo dei ricchi”), che ben descrive il dominio dei capitali che competono sul “mercato elettorale” (Macpherson, Wolin).
Il senso comune associa il termine “plutocrazia” a Mussolini e Goebbels, che lo usavano per denigrare le democrazie atlantiche. In realtà è un termine che, fin dalla tradizione greco-romana, indica una particolare degenerazione dei sistemi politici, ed è stato usato anche da Lenin e Roosevelt (Theodore) per descrivere le democrazie occidentali del Primo Novecento.
E per quanto riguarda le democrazie orientali?
In questo caso ci viene in soccorso Matvejevic (seguito da Hassner), che ha sdoganato la parola “democratura”, una felice crasi di democrazia e dittatura, in grado di descrivere quei sistemi di potere tipici dei Paesi dell’ex blocco sovietico e jugoslavo, come Russia, Ucraina, Ungheria, Romania, Serbia, Croazia ecc.
Nelle democrature, formalmente democratiche, la transizione al modello multipartitico occidentale non è riuscita a tradursi in democrazia reale. Sopravvive in esse la vecchia gestione del potere centralizzata e partitocentrica, un rapporto tra potere esecutivo e giudiziario più spregiudicato e interventista, una gestione della dissidenza più insofferente.
Checché ne dicano le diverse tifoserie, le differenze con i nostri modelli ci sono, ma sono anche più sfumate di quanto si crede. La figura di Putin non appare troppo diversa da quella di un Andreotti, non a caso entrambi hanno molte caratteristiche in comune. Sono entrambi uomini ripetutamente eletti in grado di rimanere per decenni in ruoli apicali, sfruttando diversi incarichi istituzionali e creando intorno a loro un’aura di potere, con un alto grado di influenza mediatica e intoccabilità giudiziaria, grandi capacità di “statisti” e coinvolgimento più o meno diretto in omicidi politici mirati.
In ogni caso, le somiglianze non ci impediscono di distinguere il plutocrate (come Merz) dal democratore (come Putin), o il democratore dal dittatore (come Xi Jinping).
Il primo è l’espressione di una plutocrazia che lo ha scelto e sponsorizzato (solo in apparenza scelgono i tedeschi, il punto è questo – Merz è l’ex presidente del Consiglio di Sorveglianza di Blackrock, uno dei fondi finanziari più influenti del mondo, con grandi affari nel riarmo e nei venti di guerra di cui Merz è promotore); il secondo è l’espressione di una vecchia e capillare struttura di potere; il terzo è l’espressione di un’istituzione sociale peculiare (qui andrebbe aperta una lunga parentesi, perché l’immaginario occidentale confonde dittatura e tirannide, ma atteniamoci all’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, per la quale Xi è formalmente un “dittatore”).
È noto che Putin, quando deve prendere decisioni (o farle prendere al Primo Ministro), riunisce un gabinetto informale di burocrati. Gli organi rappresentativi spesso si limitano a ratificare quelle decisioni in una catena verticale di comando. Da 30 anni lo stesso accade nelle democrazie occidentali, dove gli organi legislativi sono progressivamente esautorati a vantaggio di ristretti uffici tecnocratici al vertice della piramide decisionale, quel “pilota automatico” che deve agire libero da fastidiose interferenze democratiche.
A questo punto, l’occidentalista rimane incastrato in un imbarazzo intellettuale. Egli rivendica un’ideologia di guerra in cui le democrazie occidentali devono sconfiggere le dittature, ma la Russia è una democrazia, non una dittatura. Se egli si appella al fatto che la Russia è SOLO formalmente una democrazia, perché in essa vige la democratura, deve arrendersi al fatto che anche l’Occidente è SOLO formalmente in democrazia, perché in esso vige la plutocrazia.
Inoltre, occorre considerare che democrature e dittature sono forme storiche obbligate con cui i Paesi non occidentali si proteggono dalle infiltrazioni dei capitali e dell’influenza politica delle plutocrazie occidentali (Mearsheimer). Ciò non toglie che ci sono buoni argomenti (vedi Schumpeter) per preferire una plutocrazia occidentale a una democratura orientale. Ma non sono disponibili buoni argomenti per fare della retorica “democratica” e occidentalista contro la “dittatura russa”, senza perdere la dignità intellettuale.
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