Geopolitica
Usa, Israele, Iran. Bilanci di guerra, tra poche risposte e molti interrogativi
La guerra pare finita, ma i problemi restano insoluti. USA e Israele hanno mostrato rispettivamente straordinaria potenza e superiorità tecnologica e militare, ma anche incapacità strategica e limiti oggettivi. L’Iran è duramente colpito, ma ancora in piedi. Serve la diplomazia
Tra le grida di giubilo dei trumpiani italici e quelle di rabbia degli anti-trumpiani (e/o antiamericani) apocalittici, sarebbe forse necessario giudicare i recenti eventi bellici tra lsraele, Iran e USA, con adeguata calma e aderenza a quella che è la realtà delle relazioni internazionali di questo decennio. Le quali, tutto sommato, se pur caratterizzate da una sempre più evidente instabilità, se ci riferiamo all’ uso della forza tra stati, non sono poi radicalmente diverse da quelle degli ultimi ottant’ anni. Rimane soprattutto misterioso come, specialmente da parte di fazioni partitiche e giornalisti politicizzati nostrani, ridotti spesso alla stregua di banali propagandisti, ci si lanci in sicure affermazioni su quel che significheranno questi dodici giorni di guerra, e su chi ha trionfato e chi invece ha dovuto soccombere. Come se l’analisi delle relazioni internazionali fosse una disciplina finalizzata a prevedere il futuro, o a fare invece il commento alla maniera di un post-partita di calcio. Evidentemente, chi così la interpreta, poco ne comprende e scarsa utilità ne trae.
Ciò a cui abbiamo assistito in queste due settimane scarse, è stata una manifestazione di forze, ma più ancora di debolezze, sotto gli aspetti politico, diplomatico e militare, variamente distribuite tra gli attori in campo. Come, del resto, hanno evidenziato diverse valide analisi: una su tutte, rimanendo in Italia, quella di Riccardo Alcaro su Affari Internazionali. La superpotenza globale, gli USA, hanno confermato tutta la loro difficoltà a mantenere il controllo dello scenario geopolitico, e finanche di un loro junior partner, quale è Israele. Il comportamento tipicamente imprevedibile ed erratico del presidente Trump di certo non contribuisce alla chiarezza e all’autorevolezza di Washington, anche se può certamente infondere timore negli avversari. Anche alla luce di una situazione che si è poi stabilizzata, è incredibile come l’uomo più potente del mondo sia riuscito a farsi scavalcare, durante il negoziato in Oman con l’Iran, da un alleato regionale, di gran lunga meno potente e dipendente dal fratello maggiore americano per non pochi aspetti della propria difesa militare. Si può ipotizzare un gioco di squadra quanto si vuole, tra lui e Netanyahu, ma rimane il fatto che l’opzione militare era, ed è, notevolmente più rischiosa rispetto al perseguimento di una trattativa diplomatica, la quale già una volta, con il JPCOA di Obama, poi denunciato dallo stesso Trump, aveva portato alla soluzione, o almeno allo stabile congelamento, del problema. Non era neanche da escludere, nel corso del negoziato, un qualche tipo di minaccia di intervento armato, in caso di fallimento, che fungesse da incentivo per Teheran ad arrivare ad un accordo, ma l’attacco israeliano, poi seguito da quello dei B2 a stelle e strisce, è stato totalmente slegato da un qualche tipo di strategia diplomatica. Il guaio è, forse, come ha affermato Cinzia Sciuto, direttrice di Micromega, che Donald Trump è avulso da qualsiasi pensiero strategico.
Va pur detto, però, che a un certo punto, in mezzo alla sua confusione strategica, l’inquilino della Casa Bianca ha saputo azzeccare la mossa giusta, che ha permesso di sferrare un colpo micidiale, da vedere se decisivo o no, al progetto nucleare iraniano. Il bombardamento degli impianti di Isfahan, Natanz e soprattutto della montagna di Fordow, hanno mostrato al mondo tutta la forza tecnologica e militare, di cui dispongono gli USA, abbinata in questo caso anche ad un certo senso della misura. Le potenti bombe bunker-buster partite dal Missouri hanno portato a compimento l’azione iniziata dall’IDF, facendo però capire al nemico che gli obiettivi di Washington erano limitati (salvo qualche estemporaneo messaggio social di Trump su ipotetici regime change), e che quindi conveniva a tutti le parti in gioco non avventurarsi in una guerra più ampia. Da qui, la telefonata e un po’ ridicola rappresaglia iraniana sulla base americana in Qatar, e, poco altro. Per Teheran la fine dei combattimenti vale la sopravvivenza, forse, mentre per Israele la possibilità di dichiararsi vincitore e portare a termine una guerra, che non si sa quale piega avrebbe potuto prendere, una volta tanto. Per Trump invece la cessazione delle ostilità significa soprattutto la pace sociale in patria, e in particolare il controllo della sua base elettorale, per nulla disposta a imbarcarsi in nuove guerre nei deserti persiani e mediorientali. Il tycoon, alla fine, è riuscito a metter d’accordo tutti i suoi, dopo l’iniziale guerra civile mediatica all’interno della coalizione che lo sostiene, e questo va indubbiamente a suo merito. Anche se, a chi in Italia e fuori esalta la capacità del presidente di aver trovato la formula magica (i c.d. interventi “chirurgici” erano già stati messi in atto da Reagan in Libia e da Clinton in Bosnia e Iraq), su uso della forza e impegni militari all’estero (ieri le sviolinate imperversavano), verrebbe da rispondere che, dopo Afghanistan e Iraq, capire che il tempo delle invasioni con centinaia di migliaia di soldati è finito, sembrerebbe il minimo. E infatti quegli interventi sono da tempo cessati, fin dall’inizio della presidenza Obama.
Il governo israeliano può dirsi soddisfatto di come è terminato il conflitto. A livello strategico ha ottenuto un ottimo risultato, e soprattutto si è tirato dalla sua parte l’intervento americano. E non era scontato. Netanyahu è riuscito a combattere la guerra che aveva sempre cercato, contro la Repubblica Islamica, nemico esistenziale, e dal quale era stato sempre dissuaso in passato, dai vertici militari e da Washington. L’impressione di forza, preparazione ed organizzazione della macchina bellica e di intelligence israeliana è stata notevole, e i colpi messi a segno contro strutture e leaders del regime di Teheran, potenti e precisi. Tuttavia, anche Gerusalemme deve fare i conti con i propri limiti, che consistono principalmente nell’ incapacità di mettere in atto un’offensiva terrestre, e quindi eliminare definitivamente gli ayatollah. Israele si è poi dovuto confrontare con la condizione di vulnerabilità delle sue principali città, che, nonostante la grande efficacia dei sistemi anti-missile e dell’organizzazione di protezione della cittadinanza, in una certa misura permane. Tale vulnerabilità sta inoltre lì a segnalare che anche a Gerusalemme e a Tel Aviv si paga un prezzo per la spregiudicatezza politica di chi è al comando del paese. Netanyahu e i suoi possono felicitarsi di aver ritardato, resta da capire di quanto, il programma militare nucleare persiano, e di aver notevolmente degradato le capacità militari, e in particolar modo balistiche, del nemico, dimostrando in tal modo una superiorità schiacciante, dopo aver già messo fuori combattimento quasi tutti i suoi proxies. Tuttavia non possono certo dire di aver rimosso l’incubo del nucleare per sempre, mentre le conseguenze dei raid sul futuro del regime si potranno verificare solo nei prossimi mesi.
E poi l’Iran. La Repubblica Islamica ne esce fortemente indebolita, anche se ancora in piedi, almeno per il momento. La retorica bellicosa dei suoi leaders è stata fatta a pezzi dalla capacità degli F35 (ma anche F15 ed F16) israeliani di fare quasi quello che hanno voluto, sui cieli del paese, come dalla totale incapacità di garantire protezione alla popolazione, e di impedire che la propria classe dirigente militare venisse decimata dal nemico. I suoi massimi esponenti sono stati costretti a nascondersi, e a far uscire messaggi video da bunker sconosciuti anche ai principali collaboratori, per paura di finire oggetto delle bombe dei jet israeliani, con evidenti conseguenze negative per la capacità di prendere decisioni politiche in un momento cruciale. Eppure, per il momento, il regime non è caduto e non si hanno notizie di faide interne, né di sollevamenti di una popolazione, che al momento pare più che altro spaventata. Per ora, almeno. Riguardo lo stesso programma nucleare, sebbene i siti colpiti dalle MOP americane appaiano compromessi, è plausibile che le autorità persiane siano riuscite a spostare e salvare materiale e know-how, non si sa in quale misura, come testimonierebbero le file di tir immortalate nei pressi di Fordow, nei giorni precedenti lo strike americano. In tale situazione, la batosta subita consiglierebbe di tornare a patti con Washington, dove non sembra si voglia mirare al cuore del regime, ma è anche vero che riuscire a ottenere la Bomba potrebbe rappresentare un’assicurazione sulla vita, se è vero che, chi la possiede, generalmente non viene attaccato. Forse. Detto questo, l’Iran oggi è quasi solo, poco o per nulla tutelato dagli “amici” russi e cinesi (a proposito, ma i BRICS, luce del mondo post-americano, di cui Teheran fa parte, che fanno?), e privo del supporto dei propri proxies, eliminati o resi inoffensivi dall’IDF, dal Mossad e dall’esito del conflitto civile siriano. Alla finestra, infine, gli altri paesi arabi esprimono la condanna di rito verso l’azione israeliana, ma di fatto non interrompono i rapporti con lo stato ebraico, e addirittura, come nel caso della Giordania, gli forniscono aiuto nella difesa militare.
La guerra dei dodici giorni, come l’ha catalogata Trump (sempre che sia veramente finita), ricorda a tutti come la strada delle armi sia la più rischiosa, e foriera di sofferenze e distruzioni (si contano a centinaia i morti in Iran, di cui probabilmente la metà civili). Tuttavia, il necessario realismo impone di osservare come, in un sistema internazionale anarchico e in presenza di attori ostili e interessi contrapposti, non si possa prescindere dalla capacità di optare per l’uso della forza, o per la minaccia di esso, in talune circostanze. Diplomazia e possibile uso della violenza, dovrebbero essere perciò bilanciate, in un rapporto ovviamente dipendente dalla situazione e dal soggetto specifico con cui si ha a che fare. Nel caso dell’Iran si dovrebbe comprendere come la sfida posta dal rischio di proliferazione nucleare del regime non possa essere affrontata utilizzando una sola delle due opzioni. Va detto, inoltre, che è difficile immaginare per gli USA di giungere ad una stabile risoluzione del problema, senza riuscire a riportare Teheran al tavolo, e stipulare un nuovo accordo in grado di garantire la cessazione, o la forte limitazione, dell’arricchimento dell’uranio, e il relativo monitoraggio internazionale. In mancanza di esso, il regime potrebbe segretamente riprendere il programma, magari uscendo dal TNP, dato che quasi certamente è riuscito a salvaguardare parte delle conoscenze e delle risorse, e allora americani e israeliani sarebbero chiamati nuovamente a intervenire, questa volta in misura pericolosamente maggiore. A supporto di tale preoccupazione, vi sono anche le ultime indiscrezioni sull’entita’ dei danni inflitti dai bombardamenti dei B2, che parrebbe limitata e certamente non decisiva (il ritardo procurato al programma nucleare sarebbe solo di alcuni mesi), secondo fonti dell’intelligence USA interpellate da CNN e New York Times. Ma è evidente che, per incentivare l’Iran a optare per il negoziato, è necessario fornire loro garanzie di sicurezza di fronte a possibili nuovi attacchi (anche di Israele), come scrivono Jennifer Cavanagh e Rosemary Kelanic su Foreign Affairs. Garanzie che difficilmente potranno risultare credibili, se il modus operandi dell’amministrazione USA è quello imprevedibile ed erratico adottato da Trump in queste settimane, e mesi.
Alcune considerazioni, infine, sul dibattito, ormai cronico, sull’impotenza del diritto internazionale, imperante anche in Italia. Esso, in gran parte, non coglie il punto per cui questo costituisce sì una delle basi della convivenza tra le nazioni, ma non è slegato dai rapporti di forza tra di esse, che piaccia o no. E questa non è una novità del mondo in presenza di un presidente come Donald Trump, per quanto egli contribuisca a renderlo ornamentale, ma è un concetto confermato in secoli di storia, e anche nei decenni posteriori alla seconda guerra mondiale. Basterebbe ricordare che anche diversi suoi predecessori si sono impegnati in conflitti in giro per il mondo, con esiti altalenanti, compresi i democratici Clinton e Obama, per non parlare del disastroso George W. Bush (ci si potrebbe mettere a fare un elenco delle guerre nel mondo negli ultimi ottant’anni, ma sarebbe probabilmente più lungo dell’articolo). Del resto, difficilmente si può invocare il diritto internazionale per difendere la Repubblica Islamica dell’Iran, la quale da oltre quarant’anni sostiene e fomenta gruppi terroristi contro Israele e mezzo Medio Oriente, si è resa protagonista di numerose atrocità in Siria (non da sola, certo) e contemporaneamente lavorava per dotarsi di armi nucleari (non si venga a dire che l’arricchimento dell’uranio al 60% e oltre avveniva per scopi civili), mentre minacciava ad ogni venerdì di preghiera la distruzione della “entità sionista” e del “grande satana” americano.
Riuscire a recuperare, almeno in parte, una certa stabilità del sistema internazionale, è il più grande e difficile obiettivo che i paesi occidentali, tra cui quelli europei, dovrebbero darsi nei prossimi anni. Eppure, sfortunatamente, esso non dipende solo da noi e non può prescindere da un forte impegno di chi, questo sistema internazionale, ancora lo guida, sebbene sempre con maggior difficoltà: gli USA, che con Donald Trump alla presidenza, lanciano segnali ambivalenti (diciamo così) riguardo alla loro volontà di fungere da stabilizzatore e perno del sistema stesso, e alla capacità di limitare le azioni degli alleati (vedi il disastro umanitario a Gaza). Da parte europea, oltre alla naturale propensione a negoziare, a stringere legami culturali e commerciali, e a rappresentare un esempio di integrazione riuscita, dopo secoli di guerre, servirebbe la consapevolezza che, per avere un ruolo, in questo mondo così asimmetricamente multipolare, serve anche comprendere che la pace e la libertà non sono valori scontati, e vanno perciò difesi.
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