Geopolitica

Il vertice di Anchorage: bluff russo nel migliore dei casi, trappola per l’Europa nel peggiore

15 Agosto 2025

Il vertice di Anchorage, in Alaska, tra il presidente statunitense Trump e il suo omologo russo Putin potrebbe rivelarsi un nuovo fiasco diplomatico di Washington (e l’ennesimo inganno del regime putiniano, per nulla interessato a una vera pace), oppure generare risultati concreti, con un impatto sull’Ucraina e sulla sicurezza dell’intero continente.

Chi scrive ritiene che sia più probabile un vertice senza alcun esito tangibile, e sembra che persino a Washington la pensino così: non a caso la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha dichiarato che il summit sarà «un esercizio di ascolto per il presidente» dato che sarà presente «solo una delle due parti coinvolte nel conflitto»; Trump stesso ha sottolineato che il vertice ha natura «preparatoria». Un vertice per la pace in Ucraina senza il presidente ucraino è un vertice intrinsecamente fragile.

Meglio rimarcarlo dunque: è improbabile che l’incontro tra Putin e Trump sia qualcosa di più di un bluff di Mosca per ammansire il presidente statunitense e scongiurare nuove sanzioni che, per quanto insufficienti a fermare l’aggressione russa, potrebbero danneggiare ulteriormente l’economia della Russia e ostacolarne la produzione militare (che continua ad avvalersi di componenti e strumentazioni occidentali). Del resto se le sanzioni non sortissero alcun effetto perché i politici russi ne reclamerebbero periodicamente l’eliminazione? Né si può ritenere che l’intera élite del paese sostenga incondizionatamente le scelte di Putin e del suo governo: gli inquietanti “suicidi” di manager e oligarchi fanno pensare il contrario. Il regime russo è solido, ma la Russia non è un monolite, e non lo è nemmeno la sua classe dirigente.

E oltre alle sanzioni Mosca teme un maggior sostegno militare degli Stati Uniti a Kyïv: dal 2022 a oggi, smentendo numerosi analisti e accademici, l’Ucraina ha dato enorme filo da torcere all’invasore russo, che sta sì avanzando in alcune aree, ma a un prezzo molto alto. Per quanto in inferiorità numerica e di armamenti gli ucraini resistono, paralizzano gli aeroporti russi con i droni, ricordano ogni giorno ai cittadini di Mosca, San Pietroburgo, Kursk ecc. che la cosiddetta operazione militare speciale del regime è in realtà una vera guerra. Se il sostegno militare statunitense migliorasse sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo la resistenza ucraina diventerebbe ancora più efficace. Il governo russo può anche ricordare che la Grande guerra del Nord con la Svezia durò circa 21 anni, ma si tratta solo di sbruffonate: la Russia non può permettersi altri tre o quattro anni di guerra, figuriamoci altri 17 o 18.

Ma improbabile non significa impossibile. La possibilità che Trump e Putin arrivino a un qualche tipo di intesa è tenue ma c’è. Magari a una “cattiva intesa”, in grado di spianare la strada a una “pessima pace”: un’Ucraina amputata sul piano territoriale,  indebolita a livello militare, politico ed economico, ma non per questo doma. Un grande frozen conflict ai confini della UE.

Trump ambisce – non è un mistero – al premio Nobel per la pace, come il suo detestato predecessore Obama, e ammira Putin (o almeno i poteri dittatoriali del presidente russo). Una parte dell’elettorato repubblicano è profondamente isolazionista, e non mancano i funzionari conservatori pronti a venire a patti con la Russia pur di provare a staccarla dal “vero nemico” degli Stati Uniti, la Cina; e in un momento di rallentamento dell’economia statunitense e di gravissima crisi in Medio Oriente, con il governo israeliano che devasta la Striscia di Gaza e continua a destabilizzare la regione, Trump potrebbe trarre credito interno e internazionale da una tregua o persino un armistizio in Ucraina.

Ancora, se la guerra calda in Ucraina cedesse il passo a un frozen conflit (un rischio concreto, già denunciato tempo fa da chi scrive), per il complesso militar-industrial-digitale USA sarebbe un’enorme opportunità commerciale: un frozen conflict costringerebbe davvero l’Europa a un massiccio riarmo, a oggi più dichiarato che perseguito, e l’industria europea non ha al momento una capacità produttiva adeguata… ma quella statunitense sì. Non solo: un frozen conflict accelererebbe la deindustrializzazione del nostro continente, con chiusura di siti produttivi (soprattutto in Europa centrale) e riapertura in aree geografiche più sicure, come gli Stati Uniti.

Il timore di una “nuova Yalta” aleggia in tutta l’Europa centrorientale. Per questa ragione le cancellerie europee, non solo Kyïv, guardano con ansia al vertice di Anchorage; a Berlino come a Londra e Parigi, a Bruxelles come all’Aia (e forse a Roma) si è finalmente compreso quanto baltici, nordici e polacchi sanno già da tempo: il destino dell’Ucraina e quello del resto d’Europa sono legati a doppio filo. La dichiarazione dei leader della UE (che il regime russo, con il consueto disprezzo per la verità, ha bollato come “nazista”) tradisce una comprensibile preoccupazione: «accogliamo con favore gli sforzi del presidente Trump volti a porre fine alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina […] Il popolo ucraino deve avere la libertà di decidere il proprio futuro. Il percorso verso la pace in Ucraina non può essere deciso senza l’Ucraina».

Il punto è che l’Ucraina, pur non facendo parte né della NATO né della UE, è il vero scudo dell’Europa e al contempo il “canarino nella miniera”. Se il vertice di Anchorage segnasse un avvicinamento della Casa Bianca alle posizioni russe, non sarebbe soltanto una catastrofe per il popolo ucraino, ma l’inizio di una tragedia per tutti gli europei: oltre al già menzionato rischio di un frozen conflict, i fiancheggiatori di estrema destra filo-Putin che abbondano in Europa ne uscirebbero fortemente rafforzati, così come il regime putiniano, che nel 2027 o nel 2028 potrebbe arrivare ad aggredire un paese baltico.

Putin dal vertice di Anchorage può trarre notevoli benefici. Uno, significativo, lo ha già ottenuto: ha mostrato al mondo, ma soprattutto ai russi, che “l’uomo più potente della Terra” lo tratta da pari a pari, ignorando non soltanto gli ucraini ma anche il cancelliere tedesco o il presidente francese. Come ai tempi della Guerra Fredda, quando i leader di USA e URSS si incontravano per decidere i destini dell’Eurasia e il mondo tratteneva il fiato. Per un regime retropico come quello russo ogni paragone con gli anni d’oro della superpotenza sovietica è benaccetto. E non si dimentichi che l’Alaska un tempo faceva parte dell’Impero russo: non è Reykjavík o Helsinki, ma per i russi è lo stato meno statunitense che ci sia.

Putin non vuole una vera pace: è dal 2008 che attacca stati sovrani. Ma se i due presidenti dovessero concordare ad Anchorage un qualche tipo di cessate il fuoco, la pausa non costituirebbe (dal punto di vista russo) la premessa per arrivare a una soluzione diplomatica della guerra, ma sarebbe sfruttata dalle forze armate russe per riprendere il fiato e rimpinguare gli arsenali, e da Mosca per indebolire politicamente l’Ucraina e magari cercare di allontanare ulteriormente Washington (e alcuni paesi europei?) da Kyïv, per poi riprendere a combattere con qualche pretesto alla fine del 2025 o all’inizio del 2026. Il punto è che la guerra è diventata ormai il pilastro dell’intera economia russa, e un eccellente modo per selezionare la classe dirigente russa del futuro, e distinguere chi è fedele da chi invece fedele non è. Mosca non può combattere per altri 17 anni, ma per un altro anno o due sì. Specie dopo essersi accattivata le simpatie di Trump e aver concesso al presidente statunitense un piccolo trionfo di facciata.

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