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Medio Oriente

La pace di Trump è shalom?

di Oscar Nicodemo

Quasi niente, in quest’epoca, viene circoscritto con il termine giusto. E definire pace ciò che non lo è rappresenta l’ennesima aberrazione ideologica che porta a travisare un significato, anche se questo è inerente a una parola importante e fondamentale per l’umanità.

10 Ottobre 2025
Credo che nessun pacifista convinto possa essere per il disarmo della ragione. E, allora, se si deve discutere della pace orchestrata da Trump, che per il momento mette d’accordo Netanyahu e Hamas, non so quanto i superstiti palestinesi,  bisognerebbe armarsi di un minimo di criterio per poter imbastire una riflessione degna di un pensiero razionale. Davvero, oggi, si può intendere la pace come fredda, diplomatica e calcolata interruzione della guerra? Da una lettura, anche superficiale, dei 20 punti del documento esteso dal presidente degli Stati Uniti emerge ben presto e piuttosto paradossalmente la convinzione che se da un lato della moralità non possa esistere una guerra giusta, dall’altro si può sempre costruire una pace iniqua, scorretta, sbagliata. Intanto la pace dovrebbe portare a condizioni diverse da quelle che hanno provocato lo stato di guerra e garantire integrità e reciprocità, come sostiene Haim Baharier, studioso di esegesi biblica nato da genitori ebrei di origine polacca. In altre parole, l’assenza momentanea di ossessivi bombardamenti sulla popolazione civile della terra di Palestina in nessun modo può costituire un principio cardine e sicuro che ne sancisce la decolonizzazione, tantomeno fa ben sperare per il futuro delle nuove generazioni, che andrebbero affrancate da qualsiasi regime di dominio. Sarà mai una pace quella che conserva i privilegi della parte dominante su quella soccombente, a maggior ragione se il conflitto è tra un esercito moderno e attrezzato come l’Idf e una popolazione inerme come i gazawi?

Quasi niente, in quest’epoca, viene circoscritto con il termine giusto. E definire pace ciò che non lo è rappresenta l’ennesima aberrazione ideologica che porta a travisare un significato, anche se questo è inerente a una parola importante e fondamentale per l’umanità. La pace ebraica è shalom, lo sanno bene gli occidentali, quanto il mondo arabo e le popolazioni semitiche. È un concetto che va oltre la semplice assenza di guerra, includendo integrità, completezza, benessere. Costituisce un principio centrale dell’ebraismo, menzionato nella Torah, e si riferisce al raggiungimento di uno stato di armonia totale, sia nelle relazioni interpersonali che con il mondo intero. Tanti di noi sanno che il tipico saluto ebraico è “Shalom Aleikem”, che vuol dire “la pace sia su di voi”, e riflette la profonda importanza di questa astrazione nella cultura ebraica. La domanda finale, ovviamente retorica, è: la “pace” trumpiana coincide con la parola “shalom”? Rimane nitida l’impressione che i governi, oggi, perseguano politiche disumanizzanti e che, pertanto, solo i movimenti mossi da un sano sentimento popolare, ossia la parte più consapevole e attiva delle popolazioni governate, possano restaurare l’alto significato della parola pace e ripristinare il valore del termine ebraico, shalom. La speranza, manco a dirlo, è quella di un concreto e massiccio sodalizio di israeliani e palestinesi, volto a raggiungere la convivenza pacifica attraverso gli stessi diritti. Ne frattempo, non vi è nulla da celebrare, se non da registrare, con un certo sollievo, un numero minore di morti tra le donne, gli uomini e i bambini della striscia. Quanto al Nobel per la pace sollecitato dal pastrocchio imperialista di Trump, ci starebbe bene la citazione: “Le ambizioni mettono a dura prova il talento, mentre l’arrivismo mette in bella mostra la faccia tosta!”

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