Europa-Italia: fase conclusa, nuova strategia
Il punto di partenza è il solito da qualche anno: l’austerità sta sgretolando l’Unione europea. Queste politiche economiche hanno fallito sul piano teorico, come del resto diceva fin dall’inizio chi avesse letto anche solamente il manuale o non fosse sempre e comunque subalterno alle visioni dominanti o non avesse interessi da difendere oltre al buon senso e alla verità.
Le misure austere hanno fallito soprattutto sul piano politico, poiché i risultati prodotti sono stati opposti agli obiettivi fissati. E questo non si sa oggi, lo si capiva via via osservando l’aggravarsi dei fenomeni in corso, dei principali indicatori, delle condizioni economiche e sociali degli stati membri. Disoccupazione, caduta del Pil, aggravamento dei dati proprio in relazione ai parametri fissati, tutto da tempo illumina questa evidenza: l’austerità è una politica sbagliata. Di fronte alla sempre più marcata divaricazione tra risultati attesi e risultati ottenuti, sostenere ancora che quel tipo di politiche condurranno l’Ue fuori dalla Grande crisi è ignoranza o malafede. E la malafede di chi le impone per promuovere interessi nazionali, per certi versi, è meno preoccupante dell’ignoranza di chi le adotta e le impone ai propri governati per supina accettazione dell’interesse altrui.
Una delle cose più patetiche di questi giorni, per esempio, è la dichiarazione di un ministro della Repubblica che mentre constata il conclamarsi della deflazione, ampiamente paventata da almeno sei mesi, prevede l’uscita dalla crisi entro l’anno in corso: risibile.
Dato questo assunto, che a furia di ripetere ci è venuto a noia, il punto è come agire per modificare la situazione. Fermo restando che il ribaltamento furioso del tavolo va normalmente a vantaggio del baro vincente (a meno che non si sia veloci a sparare, e qui di revolver non se ne vedono), cosa che a questo momento, a mio avviso, esclude ancora ipotesi di uscita dalla moneta unica.
Circa un anno fa, dall’osservatorio italiano si poteva intravvedere un percorso stretto, tortuoso, quasi impossibile da percorrere, ma potenzialmente fecondo; e comunque l’unico. Per infilarsi in quello spazio stretto si elaborava la strategia, poi seguita dal governo italiano in modo, va detto, coerente e coraggioso. Preso il maggiore partito di governo, il segretario- presidente del consiglio lo collocava immediatamente nel Partito socialista europeo, rompendo indugi che duravano da anni e nessuno, nessuno, aveva mai avuto il coraggio di forzare. L’eccellente risultato elettorale alle europee, inoltre, permetteva in un sol colpo di entrare nel partito e, di fatto, porsi in una posizione di superiorità rispetto alle traballanti forze progressiste degli altri paesi. Il passo successivo prevedeva di articolare da questa sede una serie di alleanze, per l’appunto, con le altre forze socialiste e agire in modo comune al livello istituzionale. L’inizio imminente del semestre italiano, infatti, apriva anche alla possibilità di allargare ampi spazi di manovra nel Parlamento e nella Commissione dove, non a caso, si inserivano due pedine fondamentali: il Presidente del gruppo socialista Gianni Pittella, che nei mesi scorsi ha mostrato astuzia ed esperienza e soprattutto capacità di tessere con il poco filo a disposizione, e Federica Mogherini, nominata dopo una estenuante e abile negoziazione in un ruolo che si credeva chiave.
Questa strategia politica preventiva era ambiziosa e, sul piano tattico e funzionale, è stata condotta nel modo più efficiente possibile: obiettivamente, però, non ha portato ai risultati attesi o almeno sperati. E proprio perché è stata applicata e realizzata senza sbavature, con cautele e forzature, con bastoni e carote, da un capo del governo che, a quel livello, ha agito con energia e a tratti spregiudicatezza, ora è necessario trarre l’unica conseguenza possibile: era insufficiente.
Forse gli avversari erano troppo forti, come gli equilibri in parlamento, nella commissione, nelle istituzioni economiche, e così via potrebbero far pensare. Ogni passo, infatti, faceva scattare una trappola, come lo spacchettamento delle deleghe e il commissariamento di fatto di Moscovici dimostrano chiaramente.
Forse gli alleati erano troppo deboli, o infidi, o addirittura vigliacchi; la debolezza delle varie forze del socialismo europeo, infatti, passi, ma il dolore che proviamo tutti per i tragici fatti francesi non può farci scordare l’imbarazzante inadeguatezza del minuscolo Hollande, eletto per combattere la prepotenza tedesca e finito col casco in un motel a ore.
Forse, semplicemente i rapporti di forza non erano modificabili per questa via, e pur abili negoziatori non hanno potuto ottenere quel che la controparte non vuole e non ha interesse a concedere, e ha il potere per difendere.
Sta di fatto che, ad oggi, il pur massimo risultato ottenuto con il piano Juncker, pivot di interessi che abbiamo visto di quale fatta, dimostra che non è possibile raggiungere la crescita insieme all’austerità; che non è possibile mediare tra due inconciliabili; che non è possibile ricavare abbastanza risorse in questo quadro, pur in un’avvincente partita negli spazi stretti; che non è possibile prendere fiato in assenza di aria.
E non è da dire che non si sia corrisposto alle richieste per recuperare il nostro buon nome; come si diceva, acquisire “affidabilità” attraverso la “responsabilità”. Perché se nel negoziato quello che dovevamo dare era una (momentanea?) pressione enorme sui ceti medi, le forze sociali e il mondo del lavoro, riforme di dubbio senso che scambiavano problemi strutturali con questioni contingenti, e così via; il punto è che non abbiamo avuto in cambio nulla che faccia pensare che ne sia valsa, ne stia valendo, e ne varrà la pena.
Quindi, occorre trovare, e in fretta, un’altra strategia fondata sugli elementi che ci sono, alcuni dei quali non esistevano l’anno scorso. Vi è certamente la presenza e la vitalità di forze politiche che non possono essere definite populiste, che sono sinceramente democratiche ed europeiste: Grecia e Spagna le segnalano con evidenza. La situazione del sud Europa è peggiorata ancora nel corso di quest’anno, e forse al parametro politico (le forze progressiste d’Europa), va affiancato con più energia il parametro geografico (le forze politiche del sud Europa, a prescindere); ma porca miseria possibile che due anni di sacrifici nelle “larghe intese” non possano proprio fruttare per lo meno patti nazionali antiausterità che contribuiscano a scomporre il quadro all’interno delle forze conservatrici europee?
Infine, all’interno dei vari stati, le forze progressiste devono per davvero “cambiare verso”: le forze economiche, del lavoro, sociali, produttive, i corpi intermedi, che hanno contribuito a tenere saldo un tessuto sociale in grave sofferenza, ma che misurano quotidianamente le terribili conseguenze di questa situazione troppo a lungo protratta e non curata, devono avere un ruolo centrale in una diversa strategia anticrisi.
Se si vuole la famosa “Europa dei popoli”, insomma, occorre partire dai popoli.
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