
UE
Carlo Fidanza: “Green Deal, il ripensamento in Europa è ancora troppo lento”
Carlo Fidanza capo delegazione di Fratelli d’Italia al parlamento Europeo, vicepresidente esecutivo del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei oggi anche vicepresidente dell’Unione Democratica Internazionale.
Vista la sua lunga esperienza politica a Strasburgo parliamo di Europa, di Green Deal, i dazi di Trump, il riarmo europeo, la questione migranti, il progetto Albania. Non manca una deviazione su Milano, la città dove si è formato politicamente e che resta ancora in attesa di un candidato sindaco che rappresenti la coalizione di centro destra…
Sei al tuo terzo mandato in Europa, hai fatto un resoconto di questa esperienza, aspetti positivi e negativi?
Sul piano personale un’esperienza straordinaria: sono entrato a Strasburgo a 32 anni e ora guido con orgoglio la terza più grande delegazione dell’Europarlamento. Sul piano politico sono stati tre mandati molto diversi tra loro, nel primo ero uno dei 29 parlamentari del Pdl nel PPE, una delle delegazioni italiane più numerose della storia. Ci trovavamo nel pieno di una crisi finanziaria, l’Italia sotto attacco, la caduta del governo Berlusconi dopo la famosa lettera della Bce, la nascita del governo Monti, la spaccatura del Pdl e la nascita di Fratelli d’Italia. Una legislatura complicata, dove nonostante i numeri non potemmo far altro che provare a difenderci da una narrazione – poi rivelatasi falsata – che vedeva nell’Italia la grande malata d’Europa. Poi nacque FdI che però, alle sue prime Europee nel 2014, non riuscì ad eleggere parlamentari europeimancando per pochissimo il quorum del 4%. A quel tempo prese l’abbrivio la Lega che andò ad occupare uno spazio a destra, che noi non riuscimmo a coprire.
Lo scorso mandato invece lo posso definire diviso a metà, siamo entrati inizialmente in 5, diventati poi 6 e abbiamo finito il mandato in 10. Si trattava del nostro primo mandato all’interno dei Conservatori, un posizionamento politico intelligente che ci ha consentito di essere diversi dal Ppe da cui eravamo usciti anni prima, senza essere schiacciati in un angolo di irrilevanza a destra. La vittoria delle elezioni politiche e la conseguente nascita del governo Meloni avevano aumentato le aspettative nei nostri confronti, che inizialmente non riuscivamo a soddisfare del tutto, perché i numeri a Bruxelles erano ovviamente quelli delle elezioni europee e non di quelle nazionali. Nella legislatura attuale abbiamo invece i numeri, la forza e il posizionamento per ottenere risultati importanti: a distanza di un anno dalle elezioni europee del 2024 il bilancio è estremamente positivo, aiutato anche dalla forte credibilità internazionale ed europea di Giorgia Meloni di cui sentiamo tutto il peso, in termini di responsabilità ma anche di benefici.
Nella nostra precedente intervista, che risale all’aprile 2023, avevi detto che il Green Deal europeo è insostenibile. Oggi con il Pacchetto Omnibus sembra quasi che la Commissione Europea stia facendo dietrofront rispetto alle ultime direttive in ambito di sostenibilità. È veramente così?
È esattamente così, c’è un ripensamento in corso, anche se per noi è ancora troppo timido e lento. Mi fa piacere però raccontare due importanti risultati che abbiamo ottenuto nei giorni scorsi. Il primo nasce da una mia personale iniziativa: abbiamo chiesto una commissione d’inchiesta sui finanziamenti che la Commissione europea ha erogato alle Ong ambientaliste per andare a compiere azioni di lobbying, non soltanto verso i cittadini, ma anche all’interno delle istituzioni europee, cercando di convincere i parlamentari a votare i provvedimenti più contestati del Green Deal di Timmermans; stiamo parlando di milioni di euro dei cittadini europei, utilizzati in modo non trasparente. La proposta a mia prima firma ha raccolto l’adesione di altri 200 parlamentari europei e ora, finalmente, abbiamo ottenuto l’istituzione di un organo di controllo e verifica sui contratti delle Ong. Siamo riusciti inoltre ad allargare il campo anche alle azioni delle Ong che riguardano l’immigrazione, i temi LGBT, eccetera.Finalmente grazie alla nostra azione si indagherà su questo.
Il secondo risultato riguarda la direttiva sui cosiddetti “Green claims”, le avvertenze ecologiche sui prodotti. Si tratta di una direttiva che aumenterebbe a dismisura costi eburocrazia e danneggerebbe le piccole e medie imprese. Anche in questo caso siamo riusciti a far ritirare la proposta della Commissione Europea, con il nostro voto insieme a quello di Ppe e Patrioti. Dal punto di vista politico è significativo che ci sia stata la possibilità di raggiungere maggioranze alternative di centro-destra, a partire dal Ppe fino a tutti i gruppi di destra, uniti per sovvertire le follie green. La sinistra ha dovuto prendere atto che sui temi concreti può esistere una maggioranza alternativa; mi auguro che il prossimo step sia quello sul settore automotive, dove potremmo avere lo stesso schieramento e gli stessi numeri. Per ora c’è stata solo una parziale retromarcia con la sospensione delle multe per i costruttori, ma vorremmo che saltasse il bando alle auto diesel e benzina al 2035 e vorremmo riaprire a tutte le alternative tecnologiche, come la possibilità di utilizzare bio-carburanti e altre tecnologie mature che contribuiscano alla decarbonizzazione, senza legarsi mani e piedi all’elettrico cinese.
Qual è il vero obiettivo della guerra dei dazi fatta da Trump?
Sicuramente la Cina, anche se ciò non è stato del tutto compreso. Fin dall’inizio ho sostenuto che alla sfida di Trump avremmo dovuto rispondere scegliendo da che parte stare.
Mi spiego: prima con le politiche tedesche e poi con il Green Deal abbiamo scelto una politica filocinese, ed è esattamente così che veniamo percepiti dagli Usa. Perché se scegli una transizione solo elettrica in pratica stai consegnando un primato tecnologico, di materie prime, economico e commerciale ai cinesi, quindi stai favorendo i principali competitor dell’Europa ma anche degli Stati Uniti. Bisogna riequilibrare il nostro modello economico-produttivo verso ovest e non più verso est, altrimenti saremo sempre visti come facilitatori del sistema cinese, con il paradosso che Trump, essendo un businessman, finirà col concludere accordi con la Cina prima che noi riusciamo a farli con l’America stessa. Se gli Usa in pochi mesi hanno praticamente raggiunto accordi con tutti, tranne che con la Ue, sicuramente anche a Bruxelles hanno delle responsabilità. Ricordiamo che prima dell’incontro a Roma tra Meloni, Vance e Von der Leyen il dialogo era praticamente nullo. Probabilmente un approccio troppo rigido da parte dell’Ue non ha giovato, così come la iper-regolamentazione che colpisce la competitività delle nostre imprese nei confronti delle imprese degli Usa, che però vivono questo come una discriminazione. Ma in questa difficile trattativa esiste una linea rossa insuperabile, che riguarda i nostri standard qualitativi, ai quali non possiamo rinunciare, pensiamo per esempio al comparto agroalimentare, dove certe regole in difesa della salubrità dei cibi e delle indicazioni geografiche vanno mantenute. Si tratta di peculiarità, che fanno la differenza in un mercato dove vinciamo per la qualità, caratteristiche per noi imprescindibili, che però non sono tali per tutti i Paesi europei. Il tempo stringe, sarà importante concludere il negoziato a breve.
Hai sostenuto che l’incontro Meloni-Trump sia stato un grande successo, ma una parte dell’Unione Europea, una parte non minoritaria, non è affatto soddisfatta, soprattutto per quanto riguarda la web tax. Cosa ne pensi?
Noi partiamo dal principio che le grandi piattaforme online devono pagare la giusta quantità di tasse in base a dove vengono effettuati gli acquisti. Dobbiamo trovare soluzioni tecniche per superare l’avversione americana alla web tax. Diversi Stati americani, ad esempio, adottano una formula che si chiama nexus: questa stabilisce che per essere sottoposti al regime fiscale di un determinato Stato non è necessario avere nello stesso luogo l’impianto o la sede fisica, ma è sufficiente che ci sia un nesso, ovvero che il servizio venga fruito in quello Stato per essere sottoposto alla sua tassazione. Se noi applicassimo un principio simile non si parlerebbe più di web tax, ma di qualcosa di molto simile che potrebbe generare introiti addirittura superiori. È soltanto un’idea ma bisogna lavorare di fino dal punto di vista giuridico per raggiungere il risultato.
Nel tuo messaggio di cordoglio per il Papa hai scritto “Anche quando laicamente non abbiamo condiviso tutto, abbiamo saputo ascoltarlo e amarlo.” Che cosa FdI non ha condiviso della visione politica di Papa Francesco?
Mi riferivo principalmente ai temi legati all’immigrazione. Francesco è stato un Papa del sud globale, con una predicazione spesso incentrata sul dovere dell’accoglienza (non potrebbe essere diversamente per un Papa). Nonostante ciò, non è mai andato in contraddizione con Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto che avevano più volte ribadito il diritto a non emigrare, quello che sosteniamo noi con il piano Mattei: ogni persona ha il diritto di crescere, svilupparsi e progredire a casa propria, senza abbandonare la propria terra e le proprie radici. È comprensibile che un Papa predichi l’accoglienza ma chi governa deve laicamente varare norme che regolamentino l’immigrazione, come si fa ovunque nel mondo.
Mi sembra che il nuovo Papa sia meno retorico su questo punto, pur essendo un Papa americano ma con una forte radice peruviana. Dobbiamo tenere conto che in America Latina si gioca una partita enorme per la Chiesa cattolica, perché esiste una fortissima adesione a sette protestanti che da anni fanno proseliti tra i cristiani. Esiste quindi il tema di riavvicinare alla Chiesa di Roma popoli cristiani, ma in cui il cattolicesimo sta faticando. La stessa partita si gioca anche nel nord America. Il messaggio pro-accoglienza nasce come esterno all’Europa, ma fa proseliti in una parte del mondo cattolico di sinistra europeo e, parametrato alla nostra gestione dell’immigrazione dall’Africa, dá l’idea di una Chiesa un po’ sbilanciata rispetto al comune sentire dei cittadini. Il governo Meloni, con il piano Mattei, si è fatto carico di ricucire questa frattura culturale affermando che il diritto a non emigrare è la condizione imprescindibile per assicurare accoglienza dignitosa a chi arriva, perché arriverà in modo legale e non per mano dei trafficanti.
Anche quest’anno le celebrazioni del 25 aprile sono state foriere di polemiche, alimentate dalla richiesta del Governo di celebrare l’evento “con sobrietà” in seguito ai 5 giorni di lutto nazionale per la morte di Papa Francesco. Come sempre è considerata una festa di parte, mentre per molti dovrebbe diventare una memoria condivisa. Cosa ne pensi dell’idea avuta a suo tempo da Fini di togliere la fiamma dal simbolo, tornerà mai in auge in FdI?
Non è un dibattito attuale, ma per quanto mi riguarda non c’è motivo di cambiare un simbolo vincente. Abbiamo raggiunto il massimo del consenso con la fiamma nel simbolo: evidentemente gli italiani badano ai risultati del governo e non a polemiche ideologiche sterili. La questione del 25 aprile temo non sia risolvibile, anzi ogni anno è sempre più divisiva anche all’interno della stessa sinistra. Ci sono milioni di cittadini italiani che, pur non essendo ovviamente né fascisti né nostalgici, non si riconoscono in questa giornata, che continua ad essere monopolizzata dalla sinistra. Anche i nostri tentativi sinceri di cercare di renderla una festa di pacificazione sono destinati a fallire per colpa di una sinistra illiberale e intollerante. Persino un liberale come Pierluigi Battista, in una sua recente intervista, ha proposto di superare il 25 aprile e ritrovarsi nell’unica data non divisiva: il 2 giugno, festa della Repubblica. Personalmente sono d’accordo con lui.
Parliamo del riarmo europeo e della NATO: è stato raggiunto l’accordo sul 5% del Pil per la difesa entro il 2035. Siamo in ritardo rispetto ad altri Paesi e dobbiamo recuperare, quali le leve? 150 mld di debito comune da ripartire, capitali privati e fondi coesione?
Il 5% sarà ripartito tra il 3,5% in dispositivi per la difesa, armamenti e dispositivi connessi e il restante 1,5% in altri investimenti in sicurezza. Oggi la sicurezza e la difesa sono qualcosa di più ampio: quando si mettono in sicurezza infrastrutture fisiche, che si tratti di viadotti, gasdotti o cavi sottomarini che passano sotto il canale di Sicilia, dai quali vengono trasmessi i dati delle nostre aziende e dei nostri telefoni si sta provvedendo a sicurezza e difesa, anche senza soldati e carri armati. Queste spese dovranno essere conteggiate sia a livello Nato sia a livello europeo. Serve flessibilità nelle voci di spesa, vanno ricomprese anche le spese che riguardano il controllo dell’immigrazione irregolare, perché l’immigrazione viene utilizzata sempre più spesso come arma ibrida. Il caso esemplificativo è quello della Bielorussia contro la Polonia, ma correremmo rischi anche noi nel Mediterraneo, nel momento in cui le milizie libiche filorusse smettessero di fermare i flussi migratori. Anche questo fa parte di una visione più ampia sulla sicurezza. È importante la flessibilità sui tempi, cioè la possibilità di raggiungere questo livello di spesa in un tempo adeguato sul piano della sostenibilità finanziaria per il nostro Paese. Raggiungeremo quest’anno il 2% della spesa, un impegno assunto anni fa da altri governi e che noi ottempereremo, senza tagliare un solo euro alla spesa sociale. Per quanto riguarda il piano di riarmo europeo, preferiamo un meccanismo che non sia soltanto basato su nuovo debito, ma su un sistema di garanzia pubblica europea sul modello di InvestEU, un programma che esiste già e funziona bene, dove l’Unione Europea mette la garanzia e i privati fanno gli investimenti. Ciò consentirebbe di diminuire l’impatto sul bilancio pubblico e avere il pieno coinvolgimento del nostro tessuto di piccole e medie industrie nel comparto della difesa. Vorrebbe dire ulteriore valore aggiunto, sviluppo, occupazione e nuove risorse per l’erario, che potrebbero essere destinate ai servizi per i cittadini. Quanto al debito comune europeo, dobbiamo prima risolvere il grande tema dell’industria della difesa. Se le regole Ue ci impongono il Made in Europe quasi totale, di fatto stiamo regalando soldi e competitività ad imprese di altri stati. È il caso, ad esempio, delle imprese francesi, che hanno una filiera molto integrata rispetto alla nostra e a quella di Germania e Polonia, che invece devono contare su una parte significativa di componentistica extra-europea, principalmente americana. Finora i governi di ogni colore hanno legittimamente scelto di difendere i loro campioni ed evitare di indebitarsi per arricchire i francesi. L’Italia, di contro, sta lavorando a importanti sinergie industriali come quella tra la nostra Leonardo e la tedesca Rheinmetall, che darà vita a un nuovo carro armato europeo prodotto in Italia. Lo stesso si appresta a fare Fincantieri sul navale con altri partner europei.
Immigrazione: la linea Meloni, il progetto Albania…
È un tassello della nostra politica migratoria impostato a più livelli: il primo è stato quello di rafforzare il quadro normativo interno, di contrasto alla tratta e ai trafficanti di esseri umani, insieme ad una regolazione stringente per le Ong che non devono più fungere da taxi del mare. Poi gli accordi bilaterali con Tunisia, Egitto e Libia, diventati il fulcro di analoghi accordi siglati dall’UE con questi Paesi.
E poi ancora il Piano Mattei, non solo per i Paesi di transito ma anche per quelli di origine, per rimuovere le cause dell’immigrazione in partenza, fermare i flussi, aumentare la cooperazione nel contrasto al traffico, far crescere le economie locali creando opportunità di sviluppo per le loro e le nostre imprese in loco, creando posti di lavoro di qualità. Per ultimo l’esternalizzazione delle procedure di asilo, quindi lo schema Albania, anche per fornire un messaggio di deterrenza: quando si parte non si arriva nell’Unione Europea, e quindi non si ha diritto alla libera circolazione verso il nord Europa, ma si arriva in centri di trattenimento in una nazione che non fa parte dell’Unione Europea. Un modello studiato anche da altri governi europei, persino di sinistra.
Appare migliore la situazione di Milano dal punto di vista della sicurezza: i reati sono in calo e le forze dell’ordine sono state potenziate. Meno crimini e più sinergia tra istituzioni. C’è molta più aggressività tra i ragazzini minorenni, i reati di strada, le rapine e i coltelli creano allarme, questo fa sì che la percezione di molti cittadini sia diversa.
Condivido questa percezione, Milano non è una città sicura, ho due figli adolescenti che ogni settimana mi raccontano di bollettini di guerra di episodi che li riguardano o riguardano loro diretti conoscenti. Il tema della criminalità minorile, quasi sempre ad opera di giovanissimi immigrati di seconda e terza generazione, è diventato esplosivo. Il governo ha stanziato molti nuovi agenti a Milano e a livello nazionale è intervenuto con il “decreto Caivano” che ha abbassato l’età della punibilità a 14 anni. È uno strumento utile alle forze dell’ordine per perseguire efficacemente i reati di queste baby gang e favorire le denunce, che ancora oggi nella maggioranza dei casi le persone aggredite non fanno, perché pensano che tanto non avranno mai giustizia.
Nella nostra precedente intervista mi avevi confessato che l’ingresso a Palazzo Marino come consigliere comunale, ti aveva suscitato un’emozione più forte di quella provata quando sei arrivato al Parlamento europeo. In molti dicono che potresti tornare a varcare la porta di Palazzo Marino come sindaco…
Non credo ancora che sia il tempo per questo, come centrodestra stiamo ragionando su altri profili. Magari in futuro potrebbe anche accadere, ma sicuramente non nelle prossime elezioni. Chi come me ama la propria città e ha iniziato il proprio impegno politico da giovanissimo, partendo dal municipio per poi entrare a Palazzo Marino come consigliere, è quasi naturale che covi il sogno di diventare un giorno il sindaco della propria città. L’ho sentito dire spesso anche a Matteo Salvini, fu quello che spinse Giorgia Meloni a candidarsi sindaco a Roma addirittura mentre era incinta di Ginevra: si chiama amore per la propria comunità ed è una delle cose belle della politica. Oggi a Milano come centrodestra siamo consapevoli di non ripetere gli errori delle ultime elezioni, non arrivare troppo tardi con una candidatura non sufficientemente conosciuta dal cittadino medio, senza avere il tempo necessario per farla conoscere meglio. Ci stiamo confrontando molto, c’è molta condivisione. Certo alla stampa piace molto questo dibattito sul candidato civico o politico, che però non ci appassiona: per noi vale il vecchio proverbio cinese “non importa di che colore sia il gatto, basta che acchiappi il topo”. Quindi civico o politico non fa differenza, l’importante è scegliere un candidato competitivo che possa mantenere la coalizione compatta e in grado di poter battere la sinistra. Veniamo da tornate elettorali in cui la sinistra è stata sempre maggioritaria a Milano, negli stessi giorni in cui il centrodestra vinceva le elezioni regionali, nazionali ed europee. Ma ora, a mio avviso, in città si percepisce una voglia di cambiamento dopo diversi anni, l’attuale amministrazione sta attraversando un periodo di stanca. Se dovessimo arrivare ad un cambio della legge elettorale per i ballottaggi e ci dovesse essere magari un election day nazionale, in cui si vota nello stesso giorno per le politiche e per le grandi città, la partita si potrebbe riaprire e le nostre chances di vittoria aumenterebbero. Dobbiamo lavorare tanto, come giustamente ci chiedono i nostri elettori.
E invece governatore della Lombardia?
Sono allergico al toto-nomi, normalmente porta sfortuna e aumenta le attenzioni negative verso gli interessati. Ovviamente il fatto che si faccia anche il mio nome per un ruolo così importante lo considero un attestato di stima, significa che il lavoro che da tanti anni svolgo sul territorio è apprezzato dal mio partito, dagli alleati e da molte forze sociali. Ma manca ancora tanto tempo e prima ci sono altre partite importanti. Naturalmente, al di lá dei nomi, c’è un tema che riguarda la rappresentanza di FdI nel nord Italia. Non abbiamo mai nascosto la volontà di esprimere governatori nelle regioni del nord, dove siamo ormai da anni il primo partito della coalizione; eppure, non abbiamo un governatore. Prima o poi questa anomalia dovrà essere sanata, ma prima della Lombardia ci saranno altre regioni che andranno al voto. Oggi è ancora presto per ragionare di questo. Ciò che ci interessa ora è rilanciare l’azione di governo in Lombardia, dove stiamo facendo bene ma si può fare meglio soprattutto sulla sanità, per tornare ad essere quella eccellenza che tutta Italia ci ha sempre invidiato.
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