Il valore etico dell’immaginazione, tra orrori umani e senso di inutilità

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29 Aprile 2022

Caro Cigno Nero,

come si affronta il senso di superfluità di ciò che si fa, come lo si supera di fronte agli errori e agli orrori della storia e dell’umanità? Non so se riesco a spiegare questo sentimento che credo in verità sia diffuso e naturale. Ma l’enormità di quel che succede in Ucraina, la dimensione violenta dell’umanità che ipocritamente non eravamo più abituati a sentire come nostra solo perché riguardava popoli e terre che sentivamo solo più lontane , ogni tanto mi paralizza. Fatico a lavorare, a pensare, a badare alle cose di casa e di famiglia, non perché paralizzato dalla tristezza – sarebbe una bugia autoassolutoria, come lo è spesso la rivendicazione di una specialissima sensibilità – ma perché mi sembra che nulla serva a qualcosa, e nulla sia progettabile in un mondo privo di buone guide.

  C I

 

 

Caro C I,

se la violenza prende forma nell’azione, il superfluo, in quanto indice di ciò che riteniamo inutile, dell’azione annulla ogni possibilità. La sensazione di paralisi che ne deriva ci costringe a rivedere i significati di tutto ciò che investe, e che ha sempre radici nel quotidiano, perché è lì che la nostra vita assume senso.

La tua domanda, che mette in relazione “il senso di superfluità di ciò che si fa” con “gli errori e gli orrori della storia e dell’umanità”, allora possiamo provare a rileggerla attraverso le riflessioni di Susan Sontag a proposito delle immagini di guerra come “impronte ostinate” che ci mettono, con la loro immediatezza e autorità, davanti al dolore degli altri. In questo “davanti” ci troviamo così costretti a ripensare la distanza rispetto a un dolore che, se non appartiene al nostro quotidiano improvvisamente riempito di superfluo, come scrivi, però ci riguarda, e ci riguarda nel senso della responsabilità. È proprio il dolore degli altri infatti a farci entrare in uno spazio di esistenza più ampio che recupera il ricordo della nostra precarietà, ma anche del senso stesso del vivere, che non è mai del singolo, appartenendo invece alla relazione.

E se la guerra, scomodo promemoria di violenza, ha bruscamente annullato la distanza di sicurezza che avevamo messo tra noi e la disumanità, che assurdamente ci appartiene in quanto “esseri umani” (una distanza che, aggiungerei, si colloca anche oltre i confini geografici includendo quell’altra abitudine “tutta umana” di voltarsi dall’altra parte) perché non guardarla da un altro tipo di distanza che ci faccia mettere a fuoco? Quella di oggi è una guerra in alta definizione la cui drammatica verità è amplificata dalle immagini in tempo reale, dall’ingombrante peso dei particolari, di tutti i dettagli che prima erano lasciati ad una più intima ricostruzione. Virtualmente entriamo nelle case distrutte, nei rifugi claustrofobici, ci muoviamo tra i cadaveri lasciati in strada e gli oggetti che fanno eco a quello che non c’è più. Questa verità amplificata, mentre sembra ridurre la distanza che ci separa dai luoghi in cui la guerra “succede davvero”, segna un nuovo confine al concetto di utilità, cosa che, quando non ci porta addirittura alla negazione (che, insieme alla rimozione, fa parte dell’ elaborazione del lutto), ci lascia la sensazione che tutto sia vano. Esposti al continuo confronto con la morte e la sofferenza mandate in loop su tutti gli schermi di cui disponiamo, nella sovrabbondanza di immagini, letture e analisi dei “fatti”, cerchiamo di sentirci utili nella distanza che ritorna in una nuova veste quando la guerra la intellettualizziamo per diluirne l’orrore e l’angoscia. Nemmeno questo però funziona, perché continuiamo a percepirci come spettatori impotenti.

Allora, mettendo per un attimo da parte l’urgenza dell’utilità da cui siamo comprensibilmente ossessionati, insieme alla Sontag facciamo un passo indietro e chiediamoci se è davvero possibile una riproduzione del dolore, che sia fotografica o filmata, senza sottrargli verità, o peggio, senza produrre in noi effetti di voyeurismo; e chiediamoci chi sia l’altro per noi, “quell’emblema perturbante che ci interpella dalla sua riproduzione”. Questi interrogativi ci dicono prima di tutto che l’altro è e resta presenza, nella distanza che ce lo fa evocare e nel suo essere mortale proprio come noi. È corpo che non si può sottrarre all’incontro, ma che nel virtuale diventa corpo assente, a differenza di quei tanti corpi che la guerra, ogni guerra, mutila, annienta, affama, stupra.

Lo shock provato di fronte alla rappresentazione fotografica degli orrori di guerra, anche quando l’ipersaturazione delle immagini sembra anestetizzare l’impatto emotivo, lascia comunque intatto il loro valore etico, ci dice ancora Sontag.

È vero però che alla dimensione etica può essere difficile arrivare. Siamo abituati a pensare alle immagini come ponte tra noi e la realtà e mai come muri eretti in sostituzione di quella stessa realtà, ci ricorda Ferdinando Scianna. Ne è un chiaro esempio l’immagine della mano con lo smalto alle unghie che è stata al centro di supposizioni che di umano avevano ben poco, arrivando a negare la realtà degli effetti di una guerra in ragione di quel particolare estetico che ha oscurato il resto. Chiediamoci ancora, perciò, se la sovrabbondanza di immagini di una guerra che ci fa sentire come superfluo tutto il resto, tranne questa stessa sovrabbondanza, non abbia come conseguenza l’impoverimento dell’immaginazione, che è poi il motivo per cui vediamo lo smalto e non la fine insensata di una vita. Perchè niente ci resta da immaginare di questa guerra. Ma l’immaginazione, unico antidoto alla paralisi del pensiero, lo è anche a quella dell’azione. E senza un pensiero che si traduce in azione etica è difficile che si riesca a trovare la giusta distanza dall’azione violenta che, proprio in quanto priva di pensiero, non è mai superflua per chi la compie.

Se lasciamo che la dimensione violenta dell’umanità ci tolga anche la capacità di immaginare – immaginare non solo il livello che può raggiungere, ma soprattutto altre possibilità di gestire i conflitti – allora la guerra vince due volte. L’azione etica ha bisogno di un pensiero che prende corpo. Dare corpo al pensiero significa calarlo nella concretezza del reale, strapparlo all’effimero del virtuale e quindi alla morte. È forse anche un po’ questo il senso delle parole della Sontag quando dice: “Nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente”.

Quanto alle buone guide, potremmo cominciare dal diventare buone guide di noi stessi nel nostro quotidiano, con quelle azioni, non importa se piccole o grandi, che sanno di promessa. La promessa di non delegare mai all’immagine il pensiero.

 

 

A proposito di superfluo: Aristotele considerava “utile” tutto ciò che è finalizzato ad uno scopo preciso, “inutile” ciò che non lo è e, tuttavia, proprio per questo, svincolato da qualsiasi tornaconto, gode di uno spazio di libertà. E se rileggessimo da questa prospettiva ciò che ci appare inutile, se cioè lo considerassimo valore che apre all’azione libera, potremmo vivere diversamente il nostro senso di inutilità?

Maria Luisa Petruccelli

 

 

 

 

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TAG: Aristotele, Filosofia, guerra, Susan Sontag
CAT: Filosofia

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