Vivere per lavorare o lavorare per vivere
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Caro Cigno Nero,
Mi ero ripromessa di riscriverti, sono giorni che ci penso. Ho un’inquietudine strisciante dovuta al futuro che mi stritola, mi fa mancare l’aria. Finalmente, dopo anni (2008) riuscivo a intravedere un po’ di serenità, un po’ di luce e un presente meno incerto e poi… é arrivata l’ennesima batosta che ha rimesso in discussione tutto. Come sarà settembre? Lavorerò? Potrò contare su uno stipendio? Ma poi il lavoro é così importante (a parte il campare) per la mia esistenza? Ho passato decenni ad essere insoddisfatta di me perché non riuscivo a collocarmi lavorativamente, e quando qualcuno mi chiedeva cosa facessi nella vita (inteso quale lavoro) ecco che cadevo in crisi. Lo sai perché? Perché nella nostra società se non lavori sei un fallito/a al di là dell’aspetto economico. In questo contesto fatico ad adattarmi. È colpa mia?
Un abbraccio,
Noemi
Cara Noemi,
da quando la politica ha divorziato dal lavoro lasciandolo in pasto all’economia, il lavoro ha abbandonato la libertà su un binario morto per viaggiare solo su quello della necessità, quella che non ci fa andare in vacanza, che ci attanaglia nella morsa del “vivere per lavorare o lavorare per vivere”.
Il punto è che ad essere in gioco non è solo il lavoro, ma in qualche modo lo siamo anche noi, perché storicamente il lavoro ci identificava, permettendoci di raccontare agli altri “chi siamo”, le nostre passioni e propensioni. Era sicuramente uno scenario meno complesso, in cui il lavoro restava in equilibrio tra necessità e libertà , e – certo – si
lavorava per necessità, per “campare”, ma preservando la libertà di svolgere un’attività e avere una vita. Lo spiegava bene Simone Weil che metteva a paragone la ricamatrice che produce il corredo per un nascituro e la carcerata costretta a cucire perché le viene comandato. Si tratta dello stesso lavoro, ma con quale differenza?
Essere una ricamatrice o avere un lavoro da ricamatrice: dove si colloca il lavoro tra l’essere e l’avere, tra il “sono” e il “faccio”? Può capitare di provare imbarazzo quando c’è dissonanza tra questi due ambiti, quando libertà e necessità non vanno d’accordo.
Ci sono certi lavori che ci calzano bene, che ci aderiscono come una muta da sub e non ce ne vorremmo mai separare ma, di fronte alla necessità, accade che ci ritroviamo a dire: “ sono un ragioniere, ma non sto lavorando”,“ sono una biologa, ma faccio la cameriera”.
Il piano del fare e quello dell’essere in realtà sono intrecciati, perché il fare incide e muta il nostro essere. Eppure il fare non coincide mai completamente con l’essere, che è il luogo degli affetti e delle relazioni, delle passioni e del tempo libero. Possiamo dunque scoprire che un lavoro ci piace, che fa parte di noi, della nostra identità. Dobbiamo però essere disposti a non vedere l’identità come un monolite, lasciando che quell’ abito faccia sempre un po’ di gioco, che non ci stia appiccicato fino a soffocarci, che mantenga uno spazio di libertà.
Quando poi il lavoro lo perdiamo, arriva l’inquietudine strisciante che toglie l’aria e mozza il fiato, e che ha il nome di
“precariato”. Il mondo lavorativo ci costringe a un esercizio dettato dalla necessità di cambiare, ma che può diventare un esercizio di libertà, anche da ciò che pensavamo di essere una volta per tutte, perché è un cambiamento che ci fa scoprire cose nuove su di noi.
Nella “società liquida” di Bauman, non avere stabilità è un vantaggio perché ci permette di adattarci sempre, senza affezionarci a una identità precisa. Ed è uno scenario che contempla un lavoro altrettanto “liquido”, in cui essere sempre pronti a cambiare. Bauman fa riferimento ad una tendenza, oggi sempre più diffusa nel mondo, inaugurata dai furita , giovani giapponesi che, pur avendo anni di formazione e studi alle spalle, svolgono lavori provvisori, cambiando continuamente ruoli e luoghi per non sentirsi ingabbiati, per non essere asfissiati, sposando invece la
leggerezza.
I pupazzi da montare che mostrano sulla scatola il prodotto già finito non hanno altra possibilità di essere: un pupazzo veterinario è destinato ad essere quello, anche se il mercato veterinario dovesse diventare saturo.
Per fortuna noi non siamo pupazzi ma – per dirla con Maria Zambrano – siamo albe sempre nuove, perché la cifra del nostro essere umani sta nel non essere nati una volta per tutte, e quindi nel poter nascere sempre. Ce lo insegnano bene esuli e migranti, costretti a lasciare tutto: lingua, affetti, relazioni, lavoro, identità. Costretti a disnascere per rinascere da capo. E ce lo insegna il loro rispondere alla fatidica domanda “cosa fai?” con “ sono un
bracciante”. Solo chiedendo “chi sei?” rispondono “ ero un medico”.
Finché siamo vivi possiamo nascere. E chissà se l’ufficio del lavoro cambierà finalmente nome, perché dislocare non è collocare.
L’interrogativo resta: cosa dire all’ estraneo che ci mette a disagio con quell’ incalzante “che fai nella vita?”. E soprattutto, se malauguratamente perdessimo la nostra carta di identità, cosa rispondere all’ impiegato dell’anagrafe che, occhi negli occhi, ci chiede:“Professione?”
E se la nostra libertà fosse tutta l’umanità che ci rimane?
Irene Merlini
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Ph: Nico di Cesare
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