Digressioni tra Cigni Neri. Un anno dopo

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17 Settembre 2021

La rubrica del Cigno Nero ha compiuto un anno. Qui la trasposizione di alcune delle nostre infinite telefonate, il cui intento era una sorta di bilancio, nonostante l’insofferenza di entrambe verso gli strumenti di calcolo e precisione. Infatti è andata più o meno così:

IRENE: Cara Maria Luisa, o meglio “Malù” – per chiamarti a modo mio –, era l’agosto del 2020 quando iniziavamo una corrispondenza con le lettrici e i lettori, vestendo, ora l’una e ora l’altra, i panni del Cigno Nero. Se la memoria non mi tradisce, fosti tu a rispondere per prima con quel bellissimo scambio intorno all’amicizia. E la casualità sa sorprendere, perché giusto il mese scorso, a un anno esatto di distanza, questo tema è tornato, stavolta a interrogare me, come a disegnare un cerchio che trova la sua giuntura proprio nel sentimento che la filosofia si porta nel nome. Bizzarro, no?
Nel mezzo ci sono stati i dialoghi più improbabili, le riflessioni più disparate, e sarei curiosa di parlarne con te, di domandarti del “dove” comune, cioè del posto in cui fili tanto diversi riescono a incontrarsi.

MARIA LUISA: Cara Ire, è così che ti chiami ormai per me – anche se tu preferisci il minuscolo e tanto vorrei dirti su questo minuscolo  –, è vero, l’amicizia è uno dei temi più gettonati della filosofia, ma di quella filosofia delle piccole cose, come piace chiamarla a noi, che sono tutt’altro che piccole se pensiamo a quanto si intrecciano con il nostro quotidiano. L’ amicizia, le lacrime, la felicità che ci fa sentire così confusi e, in alcuni casi, ci fa approdare all’Autárkeia, la cosiddetta arte di bastare a sé stessi, impegnativa quanto desiderabile, tra un atteggiamento più stoico ed uno più epicureo; il lavoro, e poi i sentimenti – o come li chiamava Maria Zambrano, las entrañas – che possiamo vivere con quel pudore che ce li fa diventare “roba nostra”, possono incancrenirsi con l’invidia o, nel loro rapporto con la ragione, farci percepire perennemente scissi (penso alle ragioni del cuore tanto care a Pascal).

I.:

M.L.: A cosa pensi?

I.: Perdonami, mi sto attardando un momento. È che l’autárkeia come ideale di bastare a sé stessi mi ha sempre un po’ spaventata per le derive che potrebbe prendere: dal rischio di scivolare in presuntuose direzioni solipsistiche a quello di trovarsi a censurare le interdipendenze e le fragilità, dal ritenersi slegati dal mondo fino al totale disinteresse per il vivere comune.
E poi, a proposito dei sentimenti, pensavo al pudore, in termini non così estranei rispetto al dubbio che ponevo qui sopra: una cosa è sentirli “roba nostra” nel senso della proprietà privata, altro è viverli con pudore. Sarebbe fuorviante intendere il pudore come una specie di fortino dell’identità, come difesa egoistica dell’io dalla relazione, perché la sua peculiarità sta nell’essere contemporaneamente difesa della relazione, nel senso del rispetto, della delicatezza e della generosità. Nel pudore non ci si chiude, ma, nel momento in cui l’altro ci coglie, ci si espone, in una penombra che ci consente di trascendere l’identità e di porci sulla soglia. Parafrasando l’amico Massimiliano Orazi, il pudore sarebbe una forma di “resistenza alla dismisura” che è insieme la nostra “possibilità di misurare la costruzione dell’altro”, sebbene mai definitiva; un movimento che mantiene la “riflessività della frattura”, nella reciprocità vulnerabile e senza vergogna in cui “la vita può continuare a tenersi viva”.
Ma sono sicura che ne riparleremo, quindi possiamo tornare a pigiare il “rewind” che hai preso a riavvolgere su questo anno.

M.L.: Certo che ne riparleremo, del pudore come difesa ma anche come valore, del suo migrare dall’ intimità del corpo a quella del sentire; e ne ripenseremo insieme come facciamo sempre, anche perché sospetto che pudore e autarchia non siano così slegati, in fondo. Ma chiudo la parentesi altrimenti mi perdo anch’io!
Dicevamo dei vari temi, e mi viene in mente ancora il cibo, questo tramite per una infinità di altre cose, il nutrimento che non ha il solo corpo come fine, ma che interroga il nostro cruccio nel vederci altrettanto dotati di una scadenza: sono tutti temi che restituiscono alla filosofia la sua concretezza, staccandole finalmente quella etichetta di esercizio mentale fine a sé stesso. E lo abbiamo visto nella profondità delle mail in cui era possibile rintracciare l’abitudine di un prima fatto di una autentica disposizione, un esercizio costante a interrogarsi per cogliere il senso di quel che si è anche attraverso ciò che si pensa.

I.: Già, e spesso è proprio nel momento in cui si sceglie di condividere un’esperienza o un’idea in forma interrogativa che si accetta di pensare per davvero.

M.L.: Tu hai aperto questo scambio con un riferimento alla prima mail arrivata al Cigno Nero, io invece vorrei soffermarmi sull’ultima, quella che parla di consigli. È vero, come dici, che dai consigli siamo circondati e che, spinti dall’urgenza in cui i consigli ci mettono, che si tratti di darli o di riceverli, ci precludiamo quell’interrogazione radicale che ci fa mettere in discussione. Non sto facendo una condanna senza appello dei consigli, ovviamente. La mia vuole essere più una riflessione su quanto il bisogno di consigli, diventato abitudine quasi meccanica, ci abbia precluso la possibilità di metterci in dialogo, prima ancora che con l’Altro, con noi stessi. E questo mi fa pensare proprio al senso della nostra rubrica, che non è nata per dare consigli (come potremmo dopotutto darne, dal momento che si tratta di un primo incontro tra sconosciuti?), e men che meno per dire a chi scrive cosa sia giusto pensare. Abbiamo voluto invece uno spazio in cui arricchire le riflessioni, offrire altri punti di osservazione, e magari diventare più consapevoli dei pregiudizi, che fanno parte di noi, ma che spesso tendiamo a considerare giudizi a tutti gli effetti. La domanda finale con cui si chiudono le nostre “risposte non risposte” va poi nella direzione di un dialogo ideale, che mi piace pensare continui anche dopo la lettura, magari con altri interlocutori, e che possa valere per tutti, noi comprese.
(Non ho perso il filo, non temere… Ne sto cercando il capo negli intrecci dei nostri discorsi…).
E tu che ne pensi ?

I.: Ciò che dici è sostenuto dalle mail che sono state scritte richiamandone altre precedenti da cui sono scaturite. Penso che molto sia dovuto proprio a questa postura assunta per la conclusione, quella della “risposta non risposta” – ma sempre corrisposta, aggiungerei –. Che la chiusura di un testo sia difficile lo sappiamo dai temi che scrivevamo a scuola: “Ho finito, manca solo la conclusione” dicevamo quando eravamo ancora capaci di stare senza disagio nelle contraddizioni. Poi accadeva puntualmente che proprio quell’ultimo e breve paragrafo ci richiedeva quasi più tempo rispetto al resto. Il fatto è che le parole della fine sono le più vicine all’Altro nel senso temporale, le più presenti; insomma, la conclusione genera ansia perché è la nostra ultima chance, la parte con cui ci giochiamo l’impressione che lasciamo di noi stessi.
A fronte di questo scenario che sottende l’autoaffermazione di sé, credo che la chiusura interrogativa sia stata invece un tentativo di abdicare alla dittatura dell’io e della soggettività esasperata, uno dei modi possibili per dissentire dalle sentenze monologiche senza vita, rimando, né creatività. Certo, la domanda finale ci fa scervellare altroché, ma non perché ne vada di noi individualmente: non è un caso che la pensiamo sempre in due, perché è la relazione che va sostenuta, e per farlo c’è bisogno che l’interrogativo sia il più vero e germinativo possibile, cioè che noi per prime non stiamo lì a presumerne la risposta.
Poi, se penso a quella luce chiaroscurale delle radure che solo l’altro riesce a schiudere, la vedo un po’ anche come una restituzione, nel senso della reciprocità e della gratitudine nei riguardi di chi ha condiviso domande che mai avremmo immaginato di incontrare. Tante, e spesso quelle di cui non avrei saputo supporre l’esistenza, sono state capaci di urtare la mia di esistenza, al punto che neppure vale il passato, perché mi capita di trovarmi ancora lì a ruminarle, a soffermarmi sul senso di una parola e sui mille significati che potrebbe avere. Forse si è trattato di leggere il “lato b” delle parole, come lo chiami tu?

M.L.: Sì, su questa cosa del “lato b” delle parole ci rifletto da un po’. Forse per via del fatto che ci ho sempre visto la musica nelle parole. Quando scrivo, anche per questa rubrica, rileggo fino a quando non trovo la melodia giusta, dove ogni parola, ogni suo suono, ogni pausa, trovano il loro posto, senza inciampi, senza forzature. E ci sono “pezzi” (non è curioso che si chiamino così, proprio come i brani musicali?) che vogliono la nona di Beethoven o un’aria di Mozart, altri che tentennano sui Clash perché sono decisamente più da “Hells Bells” degli AC/DC. Per inciso, questo nostro scambio in certi punti mi fa pensare alle “Nuvole bianche” di Einaudi, in altri alla manutenzione cantata da Rino Gaetano in “A mano a mano”.
Ma la cosa più interessante, credo, del “lato b” è questa capacità che le parole hanno di sorprenderti, con i loro significati nascosti, più o meno gelosamente (da chi? Mi chiedo), e che a volte scopri per puro caso, altre perché qualcosa ti trattiene sul loro suono non appena le combini con altre parole all’interno di una frase. In fondo è un po’ quello che diceva Wittgenstein a proposito del linguaggio che è come un gioco, un gioco serio; e cos’è comporre un brano musicale o scrivere, che si tratti di poesia o di prosa, se non un terreno che arte e gioco condividono?
Forse è un po’ a tutto questo che ti riferivi?

I.: Sì e no, nel senso che non so ancora bene se siano le parole a custodire più significati o se i significati non esistano finché qualcuno non li pensa. Ti faccio un esempio, richiamando l’ultima mail che citavi, in cui la mittente tirava in ballo il sostegno e cosa esso comporti. Mi assalì un pensiero confuso, e che mi sta ancora alle costole, intorno alla parentela tra “sostegno” e “contegno”, al crinale che corre, unisce e divide, sostenere e contenere: la diga contiene un fiume e il Super-io contiene l’Es; i pilastri sostengono una trave e gli elettori sostengono un candidato. Fin qui tutto bene: si contiene qualcosa che non deve eccedere e si sostiene qualcosa che non deve cadere. Tornando alle piccole cose del quotidiano – e adesso ti faccio fare una risata –, sai cosa mi domando? Perché esistono mutande specificamente contenitive, se non vere e proprie pancere, e i reggiseni, invece, sono per lo più sostenitivi? Chi ha deciso che una pancia non possa starsene comoda ad occupare il suo spazio, mentre i seni debbano starsene dritti o, se non ci sono, si debba costruire un falso sostegno per sostenere quello che non c’è? Cosa comporta traslare questa immagine sui piani del sentire e del pensare?
Ancora, come funziona nei rapporti interpersonali? Un genitore, per dire, “contiene” la rabbia e le paure di un figlio come fa il Lexotan, o “sostiene” il figlio nelle sue espressioni di paura e di rabbia?
E nelle relazioni intrapersonali, in quelle tra sé e sé? Fa il “sostenuto” chi non si sbottona, ma si tiene sempre un gradino su, da solo si tiene sopra e al di sopra. Neppure chi fa il “contenuto” si sbottona, ma non perché voglia starsene su, anzi. Forse perché vuole stare “con”? E che “contenuto” e “contento” siano etimologicamente affini vuol dire qualcosa?
Questo era solo un esempio ancora sconclusionato per descrivere ciò che a grandi linee mi accade. Ora, cercando di non divagare, tornando alla musicalità che, come dici, non è mai giusta in assoluto ma è relativa al contesto: però, cara Malù, sorrido pensando che, ancor prima, è relativa alle persone. Potresti affrontare qualsiasi tema, con tutte le variazioni di ritmo del caso, ma saprei riconoscerti indipendentemente. E credo valga il viceversa. Sarebbe interessante capire il perché, qual è quel punto esatto, il “dove” – di nuovo –, in cui ci si riconosce.

M.L.: Beh, non riesco a immaginare un contesto privo di interlocutore. Molti lati b che ho trovato nelle mie parole sono frutto di un incontro con tutte le sfumature di significato che qualcun altro ha dato alle sue parole, dove con “mie” e “sue” non voglio indicare un possesso, una collezione privata, ma una stessa parola che ha abitato luoghi interiori diversi. Voglio dire che le nostre parole sono in parte la testimonianza di come la nostra storia, fino al punto in cui è arrivata, ha incrociato quella degli altri che è anche e sempre una storia di parole; parole attraverso cui veicoliamo un sentire oltre che un sapere, e che proprio per questo ci rendono riconoscibili, come dici tu.
E lo stesso vale per la musica. Non credo esista una canzone, o una melodia, che non sia nata pensando a qualcuno, qualcuno che ha fatto parte, a suo modo, o in qualche modo, per un tempo breve o più lungo, di una storia condivisa. Il fatto poi che in tanti, ascoltandola, ci abbiamo costruito un pezzetto della nostra storia, una storia impastata di parole e musica, è un pensiero che mi manda fuori di testa. In senso buono, si intende.
Certo, le parole possono scoprirsi anche inutili, pur non essendoci parse tali quando le abbiamo sentite nascere, perché piuttosto lo sono diventate incontrando interlocutori che non hanno voluto o saputo leggere tra le (nostre) righe.
Che non ci interroghiamo abbastanza sulle parole, sul loro senso, che non ci soffermiamo mai (o mai abbastanza) sul sentimento della frase, quell’attività tanto cara a Pier Vittorio Tondelli, penso sia abbastanza evidente. Non scegliamo quasi mai le nostre parole, quelle che ci raccontano. Tendiamo a darle per scontate, o a viverle di solo istinto. E di parole su cui non ci siamo soffermati abbastanza, che non hanno risuonato davvero in noi ma hanno creato stonature, di parole che non hanno saputo trovare una armonia in un dialogo costruttivo, coperte dal frastuono di una comunicazione ambigua da parte di un po’ tutti i canali di informazione…

I.: Senza andare lontane, quelle della pandemia ne sono state un chiaro esempio.

M.L.: Già, ne ha portate tante. Penso alla “distanza sociale”, che per fortuna ha anche il suo lato b in una distanza da “manutenere”, tutt’altro che fredda, che può anche essere discreta (una distanza fatta di pudore?), come la distanza che in Giappone si posa. Ma penso anche alla libertà, forse il più grande equivoco della pandemia, tra citazioni celebri estrapolate dal contesto per darsi una sorta di autoassoluzione e riferimenti maldestri alla Costituzione. Questa pandemia però non è stata, e non è, solo paura, rabbia o angoscia per il futuro. C’è stato un tempo diverso, una possibilità nuova di viverlo, o magari riviverlo in certi casi, nonostante tutto, nonostante il dolore, le perdite, le difficoltà innegabili. Quel famoso tempo che “ci esce”, e che ci ha stranamente portati più lontano, e non al tempo immediatamente antecedente alla pandemia, a quello che potevamo fare fino al giorno prima del lockdown, ma più indietro, a quello fatto di abitudini cadute in disuso, di gesti che non ci appartengono più, di “oggetti morti”.

I.: Immagino ti riferisca alle mail arrivate sulla scrittura a penna che si riscopre in luogo di quella digitata, sulla fotografia analogica di fianco a quella digitale, sul valore di una telefonata a voce piuttosto che l’ennesima chat in differita. Sono gesti fortemente embricati al tempo, nel senso che richiedono tempo, un tempo che apparteneva alla nostra infanzia o prima adolescenza, un tempo che ricordiamo con una specie di saudade tra i mille impegni delle agende e che, durante la pandemia, ha trovato lo spazio per tornare. Nella vita adulta, infatti, avevamo relegato quei gesti a quell’eventuale “tempo che ci esce”. L’ho chiamato così per insistere su quel “ci” come complemento oggetto, a dire che è proprio quel tempo a scoperchiarci, che noi siamo proprio in quello scarto lì. È chiaro che l’idea di riconoscersi in uno scarto disturba, ed è per questo che la pandemia ci ha messo di fronte a una situazione paradossale: improvvisamente ci è uscito così tanto tempo che ne siamo rimasti completamente spaesati e sgomenti. Sempre con quest’ansia del fare, scattare, dire, andare, postare, non sapevamo più dove trovarci e il problema grosso è stato riconoscerci, anche grazie ai gesti recuperati che dicevi, proprio in quel mucchio di “avanzi” lì, tra quegli scarti. E poi? Nel poi ci siamo dentro…

M.L.: È vero, e poi abbiamo sempre questa fretta quando dobbiamo farci un’idea delle cose. Invece sarebbe bello se il tempo, questo tempo che ci esce, lo usassimo anche per prenderci cura del pensiero, e perché no, per esercitarci alla meraviglia, visto che hai tirato in ballo l’infanzia, cosa che ci farebbe essere noi stessi invece di lasciarci esistere diluiti in una condizione impersonale, dove non è importante comprendere ma dire a tutti i costi, e in questo dire limitarsi a ricalcare il già detto, il già pensato… la famosa “chiacchiera” per come ce l’ha mostrata Heidegger.
E poi sai una cosa?

I.: Cosa?

M.L.: Credo di aver trovato quel filo. Che si tratti proprio del tempo, ma di quel tempo fuori agenda, quello che abbiamo sperimentato ritrovandoci in una stanza, improvvisamente privati di quel divertissement di cui Pascal parla nei “Pensieri”; orfani di quella pratica in cui eravamo diventati abilissimi, e che non vuole certo essere una condanna del sano svago, ma la cui problematicità sta tutta in quel “divertere”, nel distogliere cioè la nostra attenzione dalla giusta direzione, nel doverci distrarre da noi stessi convinti che la quiete e la felicità stiano fuori di noi, da qualche parte. E così ci perdiamo quel “q. b.” che non è altro che armonia, proprio come quella che esiste tra quadro e cornice, descritta in modo incantevole da Ortega y Gasset, che forse diventa occasione anche per ripensare quel bastare a sé stessi, dal momento che un equilibrio in assenza dell’altro-da-sé, proprio come succede ai quadri senza cornici e alle cornici senza quadri, risulta impossibile.
Ma quel tempo che ci esce, in qualche modo è stato l’occasione, per alcuni di noi, di sperimentare una nuova forma di attenzione.

I.: Forse è l’attenzione di Simone Weil: tutt’altro che affaccendamento, sforzo, mera tensione di muscoli, si tratta di  una attenzione senza finalità, paragonabile allo starsene su un cocuzzolo a prendere una boccata d’aria pulita, senza girarsi a guardare indietro tanto per il gusto di autocompiacersi di quanta strada è stata fatta, di quanto siamo state brave o siamo stati bravi. Difficile, difficilissimo per noi occidentali fin dentro al midollo, per noi troppo scimmie e poco lupi.

M.L.: Proprio quella…

I.: E, insieme al filo del tempo che hai scovato, aggiungerei quello dello spazio, non tanto come spazio geometrico, in cui niente e nessuno è importante perché tutto è interscambiabile, ma come spazio geografico, vissuto e abitato. È il filo del “dove” dei corpi che siamo, in cui viviamo sulla pelle distanze e prossimità, a volte più eccentriche e a volte più centrate… come in questa buffa foto.

M.L.: È stata la casa, dopotutto, lo spazio che è diventato il fuori del nostro dentro: costretti a viverla in un tempo sospeso, l’abbiamo rivissuta per la sua capacità evocativa che ha integrato i nostri pensieri. Proprio come è successo qui, dialogando con te in questo spazio e in questo tempo, in cui mi sono sentita come a casa.

Maria Luisa Petruccelli e Irene Merlini

Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
Da ottobre torneremo a pubblicare le vostre mail ogni secondo e quarto venerdì del mese.
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CAT: Filosofia, relazioni

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