Uno sguardo sull’invidia – La Posta del Cigno Nero

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11 Settembre 2020

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Caro Cigno Nero,

mi piacerebbe conoscere la tua opinione in merito ad un limite umano: l’invidia. Non so neanche se limite è il termine esatto per definirlo.
Personalmente capita anche a me di essere invidiosa di qualcosa o di qualcuno, ma poi il disagio nei confronti di questo sentimento mi allontana subito dal ragionare in tale direzione. Forse è semplicemente paura che si manifesta in modo diverso, ma vorrei conoscere il tuo punto di vista per migliorare ed insegnarlo anche ai miei bimbi.

Brufo

 

 

Cara Brufo,

l’invidia arriva sempre come un sentire inconfessabile agli altri e a noi stessi, probabilmente perché a lei non si accompagnano giustificazioni né gratificazioni, egoistiche o altruistiche che siano. L’invidia è stagnante, a differenza di tutti gli altri sentimenti e delle altre emozioni dalla connotazione negativa, ma comunque capaci di germinare qualcos’altro, e così la rabbia può infuocare ma anche sfogare, la paura paralizzare ma anche proteggere, la noia annoiare ma anche stimolare la creatività.

Non è un caso che nella letteratura antica l’invidia prendesse le sembianze di una casa putrescente: invidiando, infatti, cominciamo letteralmente a marcire dentro. Ci lasciamo logorare da un rabbioso risentimento dovuto alla felicità, ai beni e ai successi dell’altro, che invece vorremmo per noi; prendiamo a detestarlo come se le sue fortune ci togliessero qualcosa. Et voilà! Improvvisamente diventiamo paladini di una giustizia secondo cui, non solo averi, ma anche doti fisiche e talenti dovrebbero essere equamente distribuiti. E che bislacca idea di democrazia sarebbe mai questa che vuole farci pareggiare i conti solo con chi sta più in alto, infischiandocene di chi sta più in basso? Perché non ci balza mica in testa di spartire la nostra casa con il migrante, né di accontentarci di un part-time per dividere il lavoro con qualcuno che non ne ha.

Aristotele aveva rintracciato il presupposto dell’invidia nella vicinanza: la proviamo verso chi ci è vicino nel senso di prossimità fisica o anagrafica, parentale o economica, sociale o anche solo a livello di affinità. Difficile insomma essere invidiosi di Elon Musk o di Lady Gaga, per dire. Al contrario, l’invidia fa capolino quando un’amica, ad esempio, si ritrae da tutti gli angoli del mondo, e a noi viaggiare piacerebbe così tanto…

È poi la stessa etimologia a fornirci un secondo indizio: “in-videre” rimanda al “guardare storto/guardare male”, e la questione del vedere c’entra parecchio. Lo stesso Dante condanna gli invidiosi a starsene in Purgatorio con occhi tristemente cuciti da un filo di ferro. Oppure possiamo pensare al mal-occhio della cultura popolare, ed è molto indicativo che nella tradizione del centro-sud gli corrisponda la “’mmidia” (=invidia), il cui periodico rito scongiura le terribili emicranie da cui viene colpito l’invidiato.

In effetti, questi due aspetti sono un bel problema nel nostro “socialmondo-vetrina”, perché di colpo siamo tutti talmente vicini e visibili, che l’invidia ha gioco facilissimo.

Russell suggeriva come rimedio il coltivare la propria felicità, cercando di evitare confronti. Sembra un antidoto banale, specie per una realtà competitiva come quella che viviamo, in cui la stessa invidia sta assumendo connotazioni anche nuove: se da una parte fa sempre più leva su un tipo di avere “usa e getta” e su capacità spendibili, dall’altra gli stessi ruoli di vittima e carnefice hanno perso la loro alta definizione, perché spesso neppure l’invidiato è innocente nel suo condividere per ostentare, né l’invidioso è necessariamente colpevole quando è oppresso da disconferme.

Allora servirebbe un cambio di prospettiva a più livelli. Bisognerebbe che noi adulti per primi smettessimo di guardare l’altro solo per misurarci, innescando così la nostra frustrazione o, peggio, il gioco ingenuo di sminuirlo per “riparare” lo scarto. E questo lo si impara partendo dal più prossimo, dall’amica e dall’amico autentici, di cui guardiamo le foto sul Perito Moreno, mentre ce ne raccontano gli aneddoti, facendoci provare quasi la stessa emozione.

Se contestualmente la scuola prendesse ad apprezzare anche le doti non computabili, le mamme a non fare confronti coi compagni di classe e i papà a far vedere astronavi in un passeggino vecchio, i più piccoli verrebbero abituati a uno sguardo ampio, ricco e orizzontale.

Perchè, attenzione, quando Russell suggeriva di guardare alla propria felicità, non invitava ad andarsene in giro coi paraocchi per concentrarsi sul proprio orticello. Se ci pensiamo, sono proprio i paraocchi a farci “guardare male” e a favorire l’invidia, perché impedendoci una visione laterale, ce ne offrono una ristretta che sviluppa solo in verticale, quindi in termini di alto/basso, più/meno. Si tratta, al contrario, di toglierli, i paraocchi, e scoprire che davanti a noi non esiste solo una scala monoposto verso l’alto, ma la vastità dell’orizzonte, in cui vette, pianure e fossati, steppe, calanchi e foreste, paludi, oasi e deserti, sono la terra di tutti noi nomadi, viaggiatrici e viaggiatori della vita.

Forse, di fronte all’invidia, dovremmo decidere prima di tutto dove dirigere il nostro sguardo, e quindi domandarci: che tipo di mondo vogliamo vedere per il nostro futuro?

 

Irene Merlini

 

 

 

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Ph. Artem Beliaikin

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CAT: Filosofia, società

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