La scomparsa di Hayden White, il teorico della storia come narrazione

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9 Marzo 2018

Il 5 marzo 2018, all’età di 89 anni, è scomparso Hayden White (12 luglio 1928 – 5 marzo 2018), il teorico della svolta linguistica in storia. Professore emerito all’Università della California a Santa Cruz e docente di letteratura comparata presso l’Università di Stanford, in Italia è conosciuto soprattutto per   Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe,  del 1973, la sua opera maggiore,  tradotta in italiano come Retorica e storia nel 1978. L’opera di Hayden White, per il suo carattere dirompente e dissacrante, in Italia, è stata letta soprattutto in chiave negativa, come un tentativo di mettere in discussione le pretese di scientificità della storiografia e, implicitamente, le possibilità stesse di questa forma di scrittura di raggiungere la verità. Tutto ciò, negli anni, ha generato nei confronti di Hayden White delle critiche molto dure da parte di storici autorevoli, come Carlo Ginzburg e Arnaldo Momigliano, che, in misura diversa, hanno attaccato la lettura che della storiografia ha dato il teorico americano. Tutto questo, probabilmente, ha pesato sulla ricezione dell’intera opera di Hayden White che, in particolare in Italia, risulta essere poco conosciuta, spesso equivocata e fraintesa.

Per poter comprendere cosa Hayden White ha inteso con svolta retorica della storia, possiamo partire proprio dalle critiche mossegli da Carlo Ginzuburg, che ha affrontato l’argomento in Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, pubblicato nel 1992 e poi ne Il filo e le tracce. Vero, falso, finto del 2006. Ginzburg, muovendo da un discorso che si interroga sulle condizione di possibilità del negazionismo di Robert Faurisson, si chiede dove porti la posizione di teorici come Hayden White, che ritengono la scrittura della storia un’operazione non troppo dissimile da quella narrativa. Infatti, se non c’è differenza tra il romanzo e la storia, cosa consente di salvare la verità dell’Olocausto? Cosa impedisce di credere a persone come Faurisson che ritengono le camere a gas un’invenzione frutto della propaganda alleata? Tali interrogativi mostrano che dietro alla questione epistemologica si agita quella etica e, più in generale, quella relativa alla possibilità di salvaguardare una memoria condivisa dei genocidi e delle tragedie che hanno lacerato la storia. Per riaffermare il nesso tra storia e verità, e riconoscere alla prima la possibilità di riportare alla luce la realtà di cosa è accaduto, Ginzburg sottolinea la centralità del documento e, sulla base di ciò, ingaggia un confronto con l’autore che ha messo in discussione lo statuto differenziale tra la storia e il romanzo. Hayden White sarebbe responsabile di aver fatto della storia una semplice costruzione discorsiva e di aver quindi ridotto la realtà a quella linguistica. Di un medesimo fatto è possibile offrire ricostruzioni anche antitetiche, senza che la realtà possa fungere in ultima istanza da criterio per discernere tra le opzioni in campo. Da ciò ne consegue l’impossibilità di affermare la verità dei fatti e di contrapporla alle menzogne dei negazionisti di turno.

In effetti Hayden White, lungo tutta la sua Metahistory sostiene la non scientificità della storia e la sua prossimità con le forme narrative che producono il senso a partire da fatti non univoci. In tale ottica lo storico non si deve preoccupare di ricostruire la presunta verità di ciò che è accaduto, ma di «far emergere una storia plausibile da una congerie di fatti che, nel loro stato primitivo, non hanno alcun senso». I dati desunti dalle fonti sono polisemici e dunque interpretabili secondo modi e prospettive diverse. E il filo che li unisce in una trama di senso non è rintracciabile nei dati stessi, ma ricostruito a posteriore dagli storici. La scrittura della storia si configura dunque nei termini di un dispositivo per la produzione di un senso che i fatti, autonomamente, non sono in grado di far emergere. Così descritta, in effetti, l’opera dello storico non sembra molto dissimile da quella del romanziere, che a partire da sollecitazioni e fonti diverse costruisce una trama di senso unica e irripetibile. Ha dunque ragione Ginzburg nel ritenere che una simile idea della storia non consenta alcuna difesa di fronte ai negazionisti e ai sostenitori di contro-storie? Solo fino a un certo punto. Infatti, pur riconoscendo che secondo il teorico americano l’abilità dello storico consiste nella «costituzione di un complesso di eventi organizzati in modo tale da far emergere una storia comprensibile», per poter comprendere cosa egli intenda con ciò, bisogna evidenziare una distinzione che emerge negli scritti successivi a Metahistory, in particolare quella tra “fatti” ed “eventi”. I primi sono reinterpretabili illimitatamente, i secondi, invece, sono dei dati intersoggettivamente verificabili e per questo oppongono una certa resistenza alla sovrainterpretazione, cioè alle letture più disparate. Lo riassume bene proprio Hayden White in uno scritto del 1999, Teoria letteraria e scrittura storica: «I fatti sono una funzione del significato assegnato agli eventi, non sono dei dati primigeni che determinano quali significati un evento possa avere».  Da ciò possiamo dedurre che ci sono interpretazioni ammissibili e altre illegittime (come quelle dei negazionisti).

In ultima istanza, una lettura più attenta dell’intera opera di Hayden White, dunque non solo di Metahistory, se fa emergere una pratica storiografica meno certa e rassicurante di quella data per scontata da tanti storici, d’altra parte ha il grande merito di problematizzare lo statuto storiografico alla luce del pensiero critico novecentesco. Una dimensione con cui anche gli storici devono imparare a fare i conti.

 

 

TAG: Carlo Ginzburg, Hayden White, storiografia
CAT: Filosofia, Storia

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