Morire sulla soglia della libertà: la morte del profugo Benjamin parla di noi

27 Settembre 2015

Sabato 26 settembre 2015 ricorreva il settantacinquesimo anniversario del giorno in cui sul confine franco-spagnolo Walter Benjamin sentendosi un uomo braccato che nessuno era disposto ad accogliere, temendo di essere oggetto di respingimento, ovvero di essere rigettato indietro nelle mani dei suoi possibili carnefici, insomma sentendosi sfuggire tra le mani l’eventualità di poter vivere libero, decise di porre fine alla sua vita.

Molti hanno ricordato la sua genialità, i suoi scritti, il suo essere una figura intellettuale che non riuscì a parlare al suo tempo. Chi ha parlato della scena e delle circostanze di quella morte l’ha proposta come “compimento” coerente di quella vita. Non è improprio ma con ciò si perde si tende a mettere in secondo piano il fatto che esse costituiscono il testo più saliente di questo nostro tempo.
Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. La Gestapo ha da tempo requisito la sua casa a Parigi e sequestrato la sua biblioteca. Con sé, in quella fuga disperata, ormai privato della nazionalità tedesca fin dal 1939, porta una borsa di cuoio nero che contiene il suo ultimo manoscritto, ancora più importante della morfina che gli sarebbe servita per fuggire via dalla vita, se i nazisti l’ avessero raggiunto, come dice a Lisa Fittko che guida il gruppo dei fuggitivi.

Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta di percorrere il sentiero attraverso le montagne, dove sarebbe stato possibile, anche in assenza del visto di uscita dalla Francia (che aveva promesso l’estradizione verso il Terzo Reich dei rifugiati provenienti dalla Germania), raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”. Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano.
Di quell’istante si può proporre un’anatomia e dunque ripetere con Hannah Arendt che uccidersi in condizioni drammatiche quando la propria vita è in mano ai tuoi carnefici, o rischia di divenire loro preda, corrisponde a un atto di libertà. Ovvero è la dimostrazione che ancora si possiede una personalità e dunque si è ancora proprietari del proprio corpo.

Non credo che fosse la condizione in cui si trovò Benjamin. La sua era invece la dimensione del fuggitivo o del profugo, una condizione in cui l’interiorità coabita con un’alta percentuale di autoironia, se non di silenzio, sui propri malesseri. Una condizione che rappresenta la genealogia delle molte scene che riempiono la nostra quotidianità. Per questo vale la pena discuterne. Proprio perché riflettere intorno a quella morte non è erudizione.

Abbiamo impiegato molto a prendere confidenza con la scena di Portbou. Tuttavia, quando l’abbiamo fatto, abbiamo tentato di rendere quella scena la più innocente possibile. Intorno a quello scenario si sono consumati molti malintesi, alcune situazioni incongrue e il meglio e il peggio dell’Europa di allora è emerso. In breve: la catena degli aiuti e l’indifferenza; il doppio gioco e la freddezza burocratica; il senso degli affari – una volta intuita la rilevanza del personaggio Benjamin – e il comportamento della popolazione locale, dall’albergatore – che emetterà una fattura di cinque notti di pernottamento, quando dal 25 settembre sera è chiaro che al massimo si tratterà di una notte – agli addetti del cimitero che, come ricorda Scholem, capito l’affare, mostrano a tutti una tomba falsa.

Una storia senza fine quella di Walter Benjamin, non solo quella della sua persona ma anche quella del suo corpo (che comunque non si trova più). Una storia in cui si intrecciano e si sovrappongono molte cose: i resti di ciò che c’era lì’ – in quella stanza e nel paese quella notte – e che costituiscono la memoria del luogo; il processo successivo di musealizzazione, di storia ricostruita, di “memoria inventata” che costituiscono la costruzione di Portbou come “luogo della memoria”; l’edificazione del memoriale che Dani Karavan ha dedicato a Benjamin.
Portbou a lungo è stato solo un punto dove la disperazione di alcuni suoi amici (Adorno, Hannah Arendt, Gershom Scholem) ha provato a misurarsi con la combinazione assurda di caso, di condizionamento della storia e profilo della personalità, come ebbe a sottolineare Hannah Arendt. Poi però qualcosa è cambiato.

Che cosa ci affascina, dopo lungo silenzio, nella scena di Portbou, una delle tante “Termopili del XX secolo”dove sono caduti vittime della barbarie combattenti solitari?

A un primo livello credo che ci attiri l’idea o l’immagine del bohémien, dove la condizione di malessere, è attenuata o “sopportata” dalla condizione del “genio”. Il bohémien in altre parole è un irregolare, forse anche un “maledetto” ma la “buona creanza” insegna a non scartare quella figura in nome della sua “genialità”. Il bohémiem così si salva per le sue qualità singolari, ma anche risulta accettabile proprio come “il folle” rinascimentale: è funzionale alla “società di corte”. E’ la sua condizione singolare a salvarlo. Ma anche in una fase estetica della rivolta intellettuale – quale quella in cui noi oggi siamo immersi – la figura del bohémien in gran parte si schiaccia su quella del ribelle aristocratico, antimoderno e elitario.
A un secondo livello, l’idea che una parte dell’Europa, considerata reietta, ha salvato ancora l’Europa: chi ce l’ha fatta, andando al di là dell’Atlantico; chi non ce l’ha fatta, testimoniando di un’altra Europa possibile.

L’effetto è che la coscienza europea rovescia in merito ciò che è essenzialmente un buco nero della sua storia e nella storia d’Europa: il totalitarismo nazista, prima ancora di diventare una macchina industriale di sterminio, ha espulso dal territorio tedesco circa mezzo milione di ebrei e li ha in gran parte, con traversie e spesso con grandi malesseri, spinti al di là dell’Oceano, spesso con l’effetto di aver contribuito al consolidamento del primato intellettuale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Portbou oltre l’attimo di disperazione sarebbe perciò tutto questo. Il segno di ciò che l’Europa poteva essere, della sua capacità di essere se non fosse incorsa in quella parentesi dei totalitarismi.
Con una piroetta logica l’Europa, coglie “l’opportunità Portbou” celebrando se stessa contro la sua storia e riducendo i suoi totalitarismi a un incidente di percorso. La conseguenza è duplice: autoassolversi e evitare di farsi delle domande, non solo su allora, ma soprattutto su oggi.

La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga “ del nostro tempo su cui nel 1994 invita a riflettere Dani Karavan illustrando il senso del Memoriale Benjamin a Portbou.

“Mi è difficile pensare – affermava Karavan – di rappresentare la violenza attraverso la violenza. Nessun mezzo artistico può pensare di rivaleggiare con la spaventosa realtà di quell’epoca. (…) Se le persone verranno a Portbou e seguiranno i Passages, constatando di persona le difficoltà dell’attraversata, del’ascensione. Meditando, provando un sentimento, comprendendo, ebbene ciò significherà che, in questa maniera, l’opera ha consentito a ciascuno di formarsi una propria opinione, reagendo ai differenti elementi. I visitatori avranno modo di fare un’esperienza , che permetterà a ciascuno di tracciare la linea che congiunge la storia alla propria vita. Così, potrà nascere un luogo di meditazione dove ci si potrà ricordare di tutti gli uomini, dei quali Benjamin, in una certa maniera, simbolizza il destino”.

A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin quale ce la consegnano le sue lettere del 1939-1940. Quelle della rievocazione e della ricostruzione di chi l’accompagna in quelle a lunga traversata sulle montagna. Quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé.
Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude.
Nella nostra quotidianità ciò significa: il nostro sistema politico, il nostro linguaggio pubblico, le parole che usiamo, le paure che viviamo e l’incapacità di pensare una politica che vada oltre il respingimento. Una politica che assuma la responsabilità di ciò che accade a quelle vite, dopo. Il silenzio con cui si accompagna l’assenza di politica non è meno complice del silenzio che circonda le loro vite. Un silenzio che qualcuno ha provato a sfidare – per esempio Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene nel film “Come un uomo sulla terra”, un film realizzato da Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene – ma raccogliendo solo silenzio.

Si potrebbe osservare che questo è una costante della storia della cultura, un profilo che era ben presente a Benjamin quando raccoglieva le sue note appunto per dare forma a quel suo ultimo manoscritto e che opportunamente Dani Karavan ha messo come esergo sulla lastra che fa da barriera al Memoriale Benjamin a Portbou. “E’ più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica”.
Settantacinque anni dopo quella storia ancora brucia. Non per come allora andò, ma per l’allusione al nostro presente, per la carica di attualità che contiene.

TAG: Andrea Segre, Dani Karavan, Hannah Arendt, Portbou 26 agosto 1940, Walter Benjamin
CAT: Filosofia, Storia

2 Commenti

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  1. stefano-borgarelli 9 anni fa

    Non ne ricordo il titolo, ma in una poesia dell’Allegria Ungaretti ha sottratto all’oblio l’emigrato Mohammed Sceab, morto a Parigi, solo come un cane. Il primo verso reca il nome: ‘Si chiamava Mohammed Sceab’.

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    1. Nell\'”Allegria” del 1919 prenderà il titolo di “In memoria” e nell’edizione del 1923 del “Porto sepolto”. Citato da “Gli scrittori italiani e l’emigrazione”, di Francesco De Nicola. Bellissimi versi!

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