La fatica e il dovere di fare una “guerra giusta”

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16 Febbraio 2015

“Non è il momento di interventi militare” (Matteo Renzi, oggi)

 

Quando sul tavolo della discussione pubblica e politica arriva la guerra tutto cambia di segno. Tutto prende un altro colore. La violenza legittima, decisa in nome e per conto del popolo, cioè esercitata in nome nostro, ci mette di fronte all’essenza più oscura della politica democratica, alla decisione di provocare lutto e morte per un interesse superiore. Di rischiare la vita di nostri concittadini e non che combattono per mestiere; di mettere a rischio (necessariamente, anche nella “guerra perfetta”) la vita degli innocenti che sono vicini di casa (ostaggi, vittime) del nemico; di confrontarci, in definitiva, con il fatto banale che la guerra uccide. Il pensiero, il dilemma angoscioso, si fa più chiaro che mai quando non è possibile nascondersi dietro a parole come “peace keeping” o altre formule del diritto internazionale, perché quella che si ha davanti è proprio la strada della guerra. Perché di questo parliamo quando parliamo della prossima, forse imminente, campagna di Libia che Matteo Renzi in un primo momento è sembrato pronto a intestare in modo forte all’Italia, salvo poi affidare a retroscena e interviste di donne e uomini vicini a lui una maggiore prudenza, e la riscoperta centralità delle Nazioni Unite per qualunque intervento internazionale, prima di dichiarare esplicitamente in tale senso. Realismo? Paura? Valutazioni di politica interna, soprattutto guardando a sinistra?

Vedremo, naturalmente, come evolverà la situazione e quali decisioni prenderà la politica. Vedremo quanto la cura dei nostri interessi (che non è una cosa brutta, e bisognerà pure che la politica lo spieghi senza complessi) troverà un punto di equilibrio con la difesa di ideali umanitari sacrosanti, sia pensando alle vittime dell’Is in territori altri rispetto ai nostri, sia guardando in faccia la tragedia di quel che succede ogni giorno nel Mediterraneo in mano agli scafisti. Vedremo tutto questo. Nel frattempo, già da oggi, ci troviamo di fronte a un dilemma antico, a un problema mai risolto: possiamo accettare che l’unica frontiera accettabile, l’unica cosa che possiamo fare sia una guerra? Ci dividiamo – ci divideremo anche questa volta – tra chi dice, soprattutto a sinistra, no alla guerra, senza se e senza ma, e chi, per ideale umanitario o tutela di interesse, con in mezzo ogni gradazione, dice che fare la guerra si può e si deve. Discussione attraversate tante volte, negli anni, e più vivide che mai quando, “appena” sedici anni fa, al governo c’era un altro leader della sinistra italiana, Massimo D’Alema, e fu proprio lui e il suo governo (nato dopo aver fatto lo scalpo a Prodi) a decidere un intervento, in Kosovo, contro la pulizia etnica del tiranno Milosevic. Le differenze sono tantissime, ma le similitudini sono forti e non mancano: oggi, come allora, la tragedia è vicina, vicinissima. Oggi più di allora allora governa il leader riconosciuto del centrosinistra italiano. Oggi, più di allora, i nostri interessi economici e di sicurezza nazionale sono in gioco in modo lampante, assieme alle violazioni dei diritti umani. Oggi, più di allora, i rischi e le opportunità di una campagna bellica sono elevati, e una valutazione accurata di tutti i fattori è un dovere.

Un dovere come quello di confrontarsi con la realtà, complessa, di un’emergenza umanitaria e di enormi rischi, strettamente connessi. Un dovere da affrontare con maturità politica e umana, pensando con attenzione alle forza in campo, alle nostre reali capacità militari, politiche e diplomatiche, a chi è davvero il nemico sul campo, a quanto male può farci se facciamo una guerra, e a quanto male può farci se, invece, non la facciamo. Perché dire “guerra giusta” è sempre complicato, e senza un solido apparato di valutazioni complessive, ideali e materiali, è davvero impossibile. Insomma, siamo in uno di quei momenti topici della storia, attraversiamo uno di quei tempi decisivi in cui si diventa grandi, o ci si fa molto male. Vale per tutti noi e, in particolare, per una generazione politica nuova – quella di Renzi – che ha lungamente rivendicato egemonia e oggi è al potere. Sulla Libia non ci saranno chiamate d’appello, non ci saranno seconde chance. O si diventa grandi, o si muore.

TAG: guerra, Libia, Matteo Renzi
CAT: Geopolitica

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