La pace possibile è sporca e piena di rinunce, proprio come la politica migliore

29 Ottobre 2023

C’è stato un tempo, circa 30 anni fa, in cui la pace in Medioriente sembrava a portata di mano. In realtà non lo era, nè lo è mai stata. Ma se ne parlava concretamente, si negoziavano confini, si discutevano prospettive di medio e lungo periodo. Si riparlava della storia passata e di quella futura. Si diceva che sarebbe nato uno stato di Palestina, che mai era esistito nella storia, e che avrebbe confinato con Israele su due versanti, uno sud-occidentale a Gaza, e uno orientale, a est di Gerusalemme. Si parlava appunto di come dividersi la Città Santa, si litigava su quanto i confini avrebbero dovuto essere ritagliati attorno alle colonie illegali di Israele, includendone alcune nei confini del futuro. È stato un processo pieno di contraddizioni e limiti, che qui è impossibile riassumere, e che non a caso finì in nulla, boicottato dal terrorismo ebraico che uccise Rabin, disseminato di mine da un Arafat mai convinto di compiere appieno la propria trasformazione da capo della guerriglia a negoziatore di una pace necessariamente fondata su rinunce e abiure. In entrambe le società crescevano a dismisura i semi dell’integralismo, che peraltro in quella contesa ha un significato filologico molto preciso, quasi letterale: è il pensare e agire politico di chi vuole tutto, tutta la terra per sè e per la propria nazione. Integralmente, appunto. Sfidare questa tentazione distruttiva, che come ogni pulsione distruttiva verso gli altri finisce sempre con l’esserlo anche in sè, e per sè, è stato il tentativo di politica più alto che, dopo 50 anni di guerra, gli israeliani e i palestinesi hanno a suo tempo fatto, forse con claudicante convinzione, e sicuramente senza successo, proprio a causa dell’indispensabilità di rinunce e compromessi che a entrambe le parti sarebbero state richieste, per arrivare a una firma e a un accordo. Fallito quel tentativo, quello di Rabin, Peres, Arafat, Barak e Abu Mazen, non ce n’è mai davvero stato un altro. Sono passati quasi 25 anni, e la spirale di terrorismo, iper-reazione, colonizzazione, la generale radicalizzazione delle due società e delle loro classi dirigenti, corruttela morale e indifferenza internazionale non ha conosciuto pause, da allora, fino ad arrivare a quest’oggi: in cui l’egemonia di Hamas, dei suoi metodi terroristici e dei suoi obiettivi di distruzione d’Israele, sul popolo palestinese, è molto più solida di quanto vogliamo ammettere, mentre i governi israeliani democraticamente formati si susseguono espandendo la colonizzazione illegale e immaginando che la risposta militare brutale sia sempre necessaria e, soprattutto e drammaticamente, sufficiente.

È facile, in certo senso, e sicuramente doveroso, riassumere le cause storiche che hanno portato fino a qui. C’è stato l’11 Settembre, e la sciagura di una reazione globale guidata dai volonterosi teorici e pratici del conflitto di civiltà, le guerre in Afghanistan e in Iraq, che hanno cementato le opinioni pubbliche arabe e islamiche in una definizione di alternativa radicale all’Occidente, con le onde lunghe di Al Qaeda e dell’Isis, nemiche tra loro ma con il comune nemico che siamo noi. C’è stato il “dettaglio” di una politica israeliana sempre più dipendente dalla minoranza di fanatici con la kippah fatta ad uncinetto e il fucile sempre al collo che si chiamano coloni. Lorenzo Cremonesi, sul Corriere di oggi, spiega molto bene che sono alcune centinaia di migliaia, che su una maggioranza ebraica di circa 7 milioni di cittadini fa comunque circa l’8%. Non proprio pochi. C’è stata l’incapacità dei palestinesi di esprimere, come alternativa alla vecchia logora e corrotta leadership dell’Olp, altro che rabbia islamista e violenza politica indiscriminata, senza alcun progetto che non fosse il velleitario – oltre che ovviamente inaccettabile – obiettivo di ributtare gli ebrei a mare. C’è stato c’è tutto questo, e molto altro. Ma per quanto radicali e decisive siano le cause geopolitiche, economiche e sociali, vale forse la pena di aiutarsi a ragionare della storia considerandole conseguenza ed accelleratore di altro. Di un’involuzione del pensiero globale e delle civiltà che ha reso vietati i desideri migliori, e risibili i progetti più nobili a tutto vantaggio degli ignobili: umani o progetti, in fondo, fa lo stesso.

In questi decenni, a ogni livello, abbiamo visto radicarsi infatti, e dispiegarsi appieno, il paradigma per il quale non c’è alternativa all’esistente. TINA, there is no alternative: a un mercato senza argini che regola la società; a un modo di concepire la politica come ancillare ai rapporti di forza; al breve termine dei sondaggi settimanali che sono la vera misura del consenso sociale, invece delle elezioni. E all’idea che pace, giustizia sociale, coscienza climatica, siano parole per sognatori: non tavoli di lavoro, sporchi e indispensabili, per governanti, politici e diplomatici.  Ancora più radicalmente, è sparita dalla coscienza collettiva e dal dibattito pubblico mainstream, quello che si svolge attorno e dentro le forze politiche e sociali delle società democratiche, e che spesso in passato ha contagiato viruosamente anche le altre, l’idea che l’esistente potesse essere cambiato, migliorato, discusso. La vittima naturale, l’emblema di questo processo, è proprio un processo di pace accidentanto e simbolico quant’altri mai, quello tra Israele e Palestina. Che infatti è scomparso da ogni discorso locale e da ogni pressione internazionale, tra il disinteresse di chi non ha potere, come gli europei, e gli interessi di chi ne avrebbe, come gli americani e i cinesi. Scomparsa del tutto la pace da ogni orizzonte, come ovvio, è rimasta solo la guerra, come pensiero naturale, per due popoli in guerra da sempre, entrambi con buone ragioni e troppi torti. Entrambi con diritti sacrosanti, fondati in natura e dal diritto internazionale, ma a patto di riconoscere, appunto, che non sono i soli diritti che insistono su un’unica terra.

E così ci troviamo, oggi, di fronte a un ignoto che si traveste da noto, davanti una violenza che conta già quasi 10 mila esseri umani morti, per lo più innocenti, senza che nessuno ricordi che senza minoranze offese, ma coraggiosamente accompagnate ad accettare l’offesa per un bene più grande e un futuro più chiaro, non esiste alcuna possibilità alternativa rispetto all’infinita spirale che vediamo in questi giorni consumarsi in Medioriente. Senza rinunce anche brucianti, infatti, non esiste alcuna possibilità di pace, nè in Palestina nè in nessuna parte del mondo, a meno che quella dei vincitori che schiacciano i vinti. Senza compromessi, anche umilianti, non esiste nessuna possibilità diversa dalla guerra infinita. A meno di non augurarsi appunto che uno dei due compia il disegno dell’integralismo, e con la forza e il sangue dei vinti, prenda quella terra tutta per sè. Se vi sembra un pensiero aberrante sappiate che lo è. E sappiate – sappiamo – anche, però, che è quello che il mondo sta autorizzando da quando ha dismesso l’obbligo, il dovere, la missione di gridare che la pace è l’unico destino giusto per gli umani, fossero anche i più ingiusti. Che in un mondo umano si deve dire che alla pace – la più giusta possibile, tra l’ingiustizia che è di ogni compromesso – non dev’esserci alternativa, e a tutto il resto sì.

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CAT: Geopolitica

Un commento

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  1. dino-villatico 6 mesi fa

    Lucida analisi dell’oggi. E non solo di quanto accade in Medio Oriente – o come sarebbe più comprensivo dire, nell’Asia inferiore (oriente rispetto a chi? e medio dove?) – ma non solo là. Nel microcosmo soffocante della politica italiana non sembra che ci si comporti in modo più razionale. Che fare? L’eterna – incompiuta, mai veramente ascoltata – domanda. Io, non come individuo, ma riflettendo su ciò che vedo accadere, e che la poca consapevolezza che mi dà lo studio del passato, a meno di un imprevisto cambiamento di rotta, vedo prossima una terribile catastrofe. Ma non solo in terre che supponiamo lontane. Jacopo, sembra che ormai pensare sia un difetto, una colpa e che abbia potere, forza solo l’appetito incontrollato di ciò che si pretende nostro.

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