Non è un caso, non può esserlo, che la spettacolare ed efficacissima escalation bellica voluta da Israele e dal suo primo ministro Netanyahu in queste settimane abbia colpito l’arcinemico Hezbollah, eliminandone i vertici a cominciare da Hassan Nasrallah, proprio alla vigilia del 7 ottobre. Un anno dopo l’incredibile azione partita da Gaza, che portò alla morte di 1200 e al rapimento di circa 250 civili israeliani, un anno dopo la più incredibile e clamorosa sconfitta strategica e d’immagine mai subita da Israele in casa propria, e per mano delle truppe non proprio addestratissime ed equipaggiatissime di Hamas, Netanyahu ha voluto presentarsi all’appuntamento dell’anniversario con uno scalpo pesante, capace di oscurare il ricordo di quella clamorosa defaillance, di far passare in terzo piano le proteste di familiari e amici dei rapiti, di derubricare perfino ad argomento della propaganda avversaria il ricordo – già timido di suo, nella società israeliana – delle decine di migliaia di civili uccisi a Gaza dall’esercito d’Israele, con ogni probabilità responsabile – assieme ai suoi vertici politici – di crimini di guerra che come tali non passeranno mai in giudicato, a proposito di memoria. Netanyahu si presenta al 7 ottobre prossimo in un paese attraversato da un’incredibile, assurda, inimmaginabile euforia: quella di chi sente di poter dire, di nuovo, di aver i migliori servizi segreti del mondo, il miglior esercito del mondo, e di poter seppellire i suoi nemici più temibili senza che nemmeno questi se ne accorgano.
Questa chiusura del cerchio, questa dimostrazione di forza per sovrascrivere il futuro su un passato di debolezza, non è un fatto nuovo, ma invece, piuttosto un elemento fondativo dell’identità israeliana, e del nuovo ebraismo che indissolubilmente si è configurato a partire dalla realizzazione storica del sionismo. Basti ricordare che, nei primi anni di vita dello stato d’Israele, fondato nel 1948, la memoria della Shoah è stata sempre celebrata in maniera molto pudica. I sei milioni di morti ebrei, uccisi nei campi di sterminio di mezza Europa, venivano infatti ricordati quasi esclusivamente a Masada, un sito archeologico nel sud del paese, che era stata scenario della strenua ed eroica resistenza ebraica contro l’invasore e assediante romano. La tragedia e la distruzione del popolo ebraico contemporaneo venivano ricordato celebrando l’eroismo dei resistenti del Ghetto di Varsavia, nel luogo in cui, difendendo la propria terra, gli ebrei di duemila anni prima avevano eroicamente resistito. Non come – l’implicito era duro, ma resta vero – avevano fatto gli ebrei europei, incapaci di capire cosa stava succedendo attorno a loro, e ancor meno di pensare di combattere. Celebrando così la Shoa si voleva celebrare la nascita del nuovo ebreo, cosciente del fatto che senza difendersi non si sopravvive. La memoria della Shoa divenne massiva e ufficiale in tutte le latitudini del paese e nelle istituzioni solo parecchi anni dopo, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Un decennio iniziato, per Israele, con la cattura, il processo e l’esecuzione della pena capitale di Adolf Eichmann, il responsabile organizzativo della macchina dello sterminio nazista. Anche quella volta, il lavoro di intelligence e la capacità di agire in solitudine e senza fidarsi di nessuna legge internazionale servirono a Israele per cambiare il segno alla memoria, e per renderla luogo di orgoglio nazionale del futuro, e non di celebrazione della debolezza del proprio passato. Dopo aver catturato e giustiziato Eichmann, Israele iniziò davvero a ricordare pubblicamente l’Olocausto ebraico.
Le storie di ieri, e quelle del secolo scorso, ci portano a guardare a domani. A provare a leggere il futuro. Dopo aver passato i primi mesi post “7 Ottobre” nella trincea del silenzio più assoluto, rompendolo solo per dichiarare che Israele si sarebbe difeso nei modi che avrebbe ritenuto migliori senza bisogno di alcun permesso o benestare; dopo aver retto l’urto della piazza interna, che chiedeva di portare a casa gli ostaggi, e di dare priorità assoluta a quell’obiettivo; dopo aver lasciato sfogare le piazze di tutto il mondo, e aver ignorato le critiche istituzionali che arrivavano da Washgington come da Bruxelles; dopo tutto, Netanyahu, che molti davano per spacciato e finito dopo il 7 ottobre, si ritrova al centro del suo piccolo paese con in mano la testa del nemico più unificante che c’era, cioè Nasrallah. A differenza della questione-palestinese, sulla quale seppur sempre più flebili non sono mai mancate voci interne critiche, sul fronte settentrionale, sulla minaccia di Hizbullah e dell’Iran, l’opinione pubblica israeliana è sostanzialmente compatta da decenni. A giustificare l’odio ideologico dell’Iran e una rivoluzione che nella distruzione del nemico sionista ha una delle colonne portanti, infatti, non c’è occupazione, non c’è negazione del diritto di esistere, non c’è nulla. E la continua rivendicazione della volontà di cancellare Israele dalla faccia della terra, a prescindere da chi lo governi e dalle politiche messe in atto, sono lì a provare la costanza dell’ossessione. Un nemico così alle porte non lo vorrebbe nessuno. Chi lo ha eliminato, colpendo in maniera profonda la sua capacità di attaccare, difficilmente sarà criticato con successo da qualcuno. E insomma, chi sembrava politicamente morto poco meno di un anno fa, sembra oggi vivo e vegeto.
La longevità di Netanyahu è un’eccezione, si dirà, che si dà solo in un contesto eccezionale tecnicamente, e aberrante, eticamente, da qualunque lato lo si guardi. Già. Eppure, quel che succede nello stato di Israele, una volta “mondo a parte” totalmente separato, sembra oggi somigliare, non di poco, a quello che sognano molti, a molte latitudini. L’assoluta separazione dal resto del mondo, il senso di inimicizia radicale, e di alterità assoluta, rispetto ad altro, ad altri, anche vicini. La breve primavera fuori stagione del laburismo inglese sembra già finita. In Germania, in Austria, in Italia, negli Stati Uniti, a crescere sono voci che rappresentano la nazione come minacciata da forze esterne, sempre più invadenti, sempre più forti, sempre più subdole. Non c’è nemmeno bisogno della guerra e della minaccia esterna, per coltivare il sogno di un isolamento perfetto che sta fuori, e sopra, e altrove, rispetto a ogni sistema di regole sovrannazionali. L’ultimo argine, dopotutto, resta l’idea originaria di Europa: una comunità di ideali e principi di pace, dopo secoli di guerre. Un’entità politica nata per le ragioni più nobili, e che oggi sembra riuscire ad esistere solo per soffocare nelle procedure, mentre nel cuore dei paesi che l’hanno fondata si consolidano movimenti e partiti che la considerano il problema, e non la soluzione. Che pensano all’unione tra vicini come una debolezza e una fatica, non come un’opportunità. Guardare a quel che capita così vicino a noi, dopotutto, può servire a ricordarci che abbiamo ereditato una fortuna, e potremmo perfino decidere di non dissiparla.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.