Lettera da Kabul

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26 Agosto 2021

Nel 1986, nel mondo dello sport internazionale avvenne un fatto insolito. Dopo una lunga trattativa, i baroni che gestivano il “circus” della Formula 1, capeggiati da Bernie Ecclestone, riuscirono ad organizzare il Gran Premio di Ungheria. Era il primo Gran Premio automobilistico a svolgersi oltre la cortina di ferro, in un paese comunista. La corsa si svolse il 10 Agosto, e fu accolto da un gran successo di pubblico. Vinse Nelson Piquet su Williams, dopo un sorpasso mozzafiato –da molti considerato il più bello dell’intera storia della Formula 1- sul connazionale Ayrton Senna.
Ci sono scarse probabilità che Ecclestone e i suoi collaboratori immaginassero che questo evento avrebbe lasciato una traccia indelebile anche su un tredicenne italiano, oltre che nel mondo dello sport. Ma sono da sempre un appassionato di Formula 1, all’epoca ero un gran tifoso di Nelson Piquet (oltre che della Ferrari), e -quel che più conta- avevo deciso di partecipare ad una gita in Ungheria e Cecoslovacchia organizzata dal prete del mio paese per i giorni intorno a ferragosto. Don Piero sapeva di questa mia passione per l’automobilismo, e poco prima di partire mi volle parlare. Mi disse che a Budapest aveva pianificato di incontrare un suo amico ungherese, un ingegnere che parlava bene italiano perché era stato per qualche tempo in Italia. Questo ingegnere aveva un figlio più o meno della mia età. “Potresti portargli qualche giornale sportivo sul gran premio?” mi chiese. Diligentemente, e anche un po’ emozionato in un senso che non saprei spiegare fino in fondo, comprai una copia di Autosprint e trovai un poster della Ferrari. Misi tutto in valigia, con destinazione Budapest. Partimmo per l’Ungheria con un pulmann gran turismo, strapieno di una variegata ma allegra congrega di anziani e ragazzi delle mie zone.
Budapest mi piacque tantissimo, e non avvertii troppo il senso di oppressione che di lì a pochi giorni avrei incontrato a Praga. Incontrammo infine l’ingegnere, che parlava davvero un buon italiano. Era un signore alto e molto elegante nel portamento. Ci parlai solo del Gran Premio, e capii che –come ungherese- era molto orgoglioso di averlo ospitato. Poi conobbi il figlio, un ragazzino dagli occhi celesti intensi, con cui provai a conversare in un terribile inglese scolastico. Non potrò mai dimenticare lo sguardo che mi rivolse quando gli porsi il giornalino ed il poster. Avevo davanti un bimbo felice, felice di tenere in mano e mangiarsi con gli occhi un giornaletto sportivo con le foto di quelli che –a lui come a me- sembravano eroi. In un paese libero si pubblicano anche riviste che parlano di piloti, o di calciatori, e se ne dipingono le gesta come se fossero personaggi omerici. Non ho più incontrato quel ragazzino, ma non mi stupirei se conservasse ancora quella rivista ed il poster. E forse sarà andato, in tempi più recenti e magari con i suoi figli, a vedere il Gran Premio di Ungheria come io sono andato a vedere il Gran Premio di Monza.
Forse le idee politiche si nutrono anche di suggestioni che durano lo spazio di un attimo. Quel che è certo è che da allora, e sempre più consapevolmente, ho sempre avuto un rigetto totale per la cortina di ferro e il comunismo che la sosteneva. L’immagine di quel bimbo, assieme a quella dell’ufficiale politico che ci misero alle costole a Praga e che scrutava in modo inquisitorio la nostra guida, è per me indelebile. Ricordo anche i muri neri di sporco della cattedrale, e uomini che sembravano spettri che si aggiravano qua e là. Un paio di anni dopo, mentre ero in vacanza, giocando con la vecchia radio che ci portavamo dietro, captai le trasmissioni in italiano di Radio Praga in onde medie. Il radiogiornale annunciava stentoreo che quel giorno, il primo di settembre, gli alunni erano finalmente tornati a scuola. Anche se ho scoperto anni dopo che solo gli studenti italiani tornano a scuola nella seconda metà di settembre, all’epoca mi sembrò un’inaccettabile violenza. Sembrava che partissero per il servizio militare, a sentire la radio.
Ho visto poi cadere il muro di Berlino alla televisione nel 1989; la stessa Berlino, trasformata e unificata, che ho visitato da adulto. Gli anni ’90 del secolo scorso iniziarono con la fiducia che le regole democratiche ed il rispetto dei diritti umani si sarebbero diffusi in tutto il mondo. E per me che ne ho sempre avuto una ammirazione infantile, gli Stati Uniti erano la grande democrazia che avrebbe permesso tutto questo. Così vent’anni fa accolsi con grande fervore l’invasione dell’Afghanistan e la cacciata dei Talebani.
Passa il tempo, ed ecco ancora un’estate; si svolge in un luogo diverso, non importa quale, ma simile a tutti i luoghi dell’estate; c’è un ragazzino che ormai è un adulto maturo, con una vita con i suoi tratti felici e quelli irreversibilmente compromessi; e si ripetono i notiziari, sui molti televisori piazzati strategicamente nei bar, che mostrano la riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani e la fuga degli americani e delle forze Nato. Quando ho visto le madri che porgevano i bambini ai soldati in piedi sul muro dell’aeroporto, ho ripensato al bimbo ungherese che si mangiava con gli occhi Autosprint. E ho ricordato che negli stessi anni i Pooh cantavano “Lettera da Berlino Est”. Questo cielo in cielo non l’ho scelto io/e nemmeno questa mia città/e non so nemmeno se me la merito, io/ma di certo non la cambierei.
Oggi c’è internet, e la Formula 1 si svolge anche in paesi islamici o gestiti da feroci dittature. E’ il divertimento globale, senza pretese, senza noiose implicazioni di politica internazionale. Ma se dovessi adesso sognare qualcosa, sognerei di ricevere una lettera da Kabul che mi chiede di far arrivare, persino laggiù, un numero di Autosprint e magari un poster della Ferrari.

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CAT: Geopolitica

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