L’illusione di affrontare il terrorismo con la cultura dell’emergenza

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20 Gennaio 2015

Dagli attentati di Parigi è tutto un proliferare di operazioni anti-terrorismo. In Francia, in Belgio, forse in Grecia e chissà a breve anche in Italia. La cultura dell’emergenza ha attecchito ovunque. All’improvviso è affiorato il problema dei foreign fighters, come se prima non esistessero. Eppure basta menzionare il boia John, l’uomo che ha barbaramente decapitato James Foley, per ricordare come la questione fosse già radicata da mesi, forse da anni. Solo che l’argomento non attirava il pubblico interesse e quindi non era degno di attenzione.

Il problema è che la lotta al terrorismo internazionale, nell’era della globalizzazione, è una questione terribilmente seria che non può essere risolta con la cultura, che talvolta diventa culto, dell’emergenza. Un decreto o i pacchetti di leggi sono spesso un cibo perfetto da dare in pasto all’opinione pubblica, affamata di risposte e di sicurezze dopo eventi destabilizzanti, con il rischio di restringere le libertà personali. Dunque, vanno bene solo in ottica di comunicazione.

Ma per ottenere risultati concreti occorrono i tempi lunghi del lavoro sottotraccia, della paziente lotta alle organizzazioni quando i riflettori mediatici sono – giustamente – puntati altrove. Serve, insomma, un qualcosa che è terribilmente démodé: una visione a lungo raggio. I terroristi sono consapevoli che le operazioni di morte, come quella realizzata a Parigi, si pianificano quando non c’è un’allerta generale, poiché con la militarizzazione in atto è tutto più complicato.

Poi una domanda è legittima: tutti questi presunti terroristi, arrestati negli ultimi giorni, per quale motivo erano in libertà? Insomma, visto che esistevano pregressi elementi per ritenerli pericolosi, perché non erano stati già fermati? Quindi viene da pensare che l’11 settembre, gli attentati a Londra e a Madrid non abbiano insegnato niente, almeno in termini di prevenzione oltre a qualche rituale procedura di controllo in aeroporto. Certo, nel frattempo è stato ucciso Osama Bin Laden, lo Sceicco del Terrore e questo fatto ha generato l’illusione che la minaccia jihadista fosse in fase calante dopo la scomparsa del suo “volto mediatico”.

Ma per un Bin Laden morto ci sono altri aspiranti Califfi, da al Baghdadi in Siria e Iraq ad al Wuhayshi in Yemen, che possono sfruttare i vuoti di potere nei loro Paesi per addestrare guerriglieri e attentatori. Anche perché i pozzi economici che alimentano queste organizzazioni non sono stati prosciugati, anzi probabilmente la crisi economica in Occidente li ha alimentati.

I fatti di Parigi hanno soltanto ribadito quella che è una consolidata conoscenza: il fenomeno dell’estremismo islamico non è estirpabile con un bombardamento a tappeto o con il rovesciamento di un regime di Afghanistam. Purtroppo bisogna fare i conti con questo fatto: il terrorismo esiste (ed esisterà) anche quando ce ne saremo un po’ dimenticati. L’importante è che non lo dimentichino la politica e le intelligence, a cui più che leggi speciali servono una vigilanza costante e quella visione a lungo raggio di cui sopra.

TAG: al baghdadi, al qaeda, attentanto charlie hebdo, isis, terrorismo islamico
CAT: Geopolitica, Questione islamica, Terrorismo

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