Il PNRR è una cosa troppo seria per affidarla alla Politica?

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3 Aprile 2023

L’altro giorno Beppe Sala ha twittato una fesseria (non è la prima volta), questa volta sul PNRR.

In un empito di sboronismo milanese, il Sindaco ha rivendicato per la seconda volta i soldi che eventualmente dovessero residuare dal PNRR, frase 3 volte grave: perché il Piano nasce per riequilibrare le differenze territoriali, non per approfondirle; perché se sei così bravo (e ultimamente qualche dubbio sulla qualità dell’amministrazione milanese è sorto) dai una mano invece di maramaldeggiare; perché c’è bisogno di pacificazione nazionale di fronte a un obiettivo che oggi si sta rivelando assai arduo, dunque testa sul collo e poche musse. Siccome siamo lontani da qualunque elezione non ci sta nemmeno la giustificazione ormai abusata del “è tutto cinema, cinema, cinema”, ché non è proprio cosa. Il momento è complesso e tutti devono dare prova di maturità

Anche perché la Maggioranza al governo nazionale non si sta rivelando “pronta” come ci aveva assicurato. Le intemerate revisioniste del Presidente del Senato e le cretinate sotto forma di progetti di legge (ma le circolari ministeriali non le conoscono?) per disciplinare cosa si mangia e come si parla emanano un cattivo odore di conti da regolare e voglia di farsi vedere, laddove servirebbe un profilo molto più basso.

Perché la situazione del PNRR, se non è grave, è piuttosto seria. E vale la pena di guardarci dentro senza furori ideologici, né visioni di parte, quantomeno fuori luogo se si considera l’essenza e la portata della questione.

Volendo ragionare senza abbaiare, si capisce innanzitutto che il problema del PNRR oggi è dovuto più, ci vuole l’onestà di ribadirlo, a questioni strutturali, di design e di scadenze del Piano che per demeriti propri del Governo, che semmai è indebolito nel suo potere contrattuale con l’Europa dalla fama non euro-cristallina di molti suoi esponenti.

Il PNRR pesa per l’Italia 191,5 miliardi (122,6 a debito), più di tutti gli altri paesi europei, il che rende nella solidarietà condizionata ai fatti propri che vige a Bruxelles il tema molto cacchi nostri. È un programma di modernizzazione del paese, cioè che punta(va?) a metterlo all’altezza dei partner europei in termini di infrastrutture, sostenibilità, digitalizzazione, competenze, equilibrio sociale e territoriale. Per farlo, punta(va?) innanzitutto sugli investimenti pubblici, generati e gestiti dalle amministrazioni pubbliche, dal Governo centrale a ognuno dei 7.901 comuni italiani, dai 2 748 109 abitanti di Roma ai 29 di Morterone, Lecco.

Qui cascano i primi asini, perché le spalle su cui gran parte delle risorse, che dovrebbero generare crescita e dunque lavoro e benessere, sono state messe sulle spallucce fragili, quando non sciancate, di quelle stesse amministrazioni che da decenni sono state oggetto di sistematici ridimensionamenti di funzioni e di personale, divenendo luoghi di lavoro marginali o per aficionados. Sono quelle stesse amministrazioni che posizionano l’Italia stabilmente al fondo della classifica di utilizzo dei parenti più prossimi del PNRR, ossia i fondi strutturali, con un gap secondo la Corte dei Conti UE, di 10 punti rispetto alla media europea (30,7% contro  40%).

Nella foga di prendere tutto perché c’è sempre un sacco di cose da fare, nella convinzione che si sarebbe trovata una soluzione, nella presunzione che gli strumenti (insufficienti) individuati per rafforzare le amministrazioni sarebbero bastati, nella miopia dei cattivi designer che guardano solo un pezzo del problema, si è preteso che un’auto di media cilindrata ferma da anni potesse all’improvviso gareggiare a Monza. Quando risultava chiaro che non ce l’avrebbe fatta, ossia subito, si è andati di rabbocchini di olio, che non hanno minimamente intaccato il problema, nemmeno gli hanno fatto solletico.

Anche se poi, cosa che non è accaduta, le amministrazioni fossero state adeguatamente rinforzate nell’organico e nella qualità alla bisogna, sarebbe rimasto da combattere il Golem della cultura amministrativa, che si nutre nel migliore dei casi di spasmodica cautela, nel peggiore di opacità e colli di bottiglia, che a tutti i livelli servono per ribadire potere e posizione. Magari si pensava che il carattere storico del traguardo avrebbe scatenato una gara a prendersi brighe o a dire “no, ma fai pure tu, che mi fido ciecamente”, dal TAR del Lazio al più piccolo Bacino Imbrifero Montano, ma così non è stato. L’introduzione di un nuovo codice degli appalti, considerato da molti troppo lasco in termini di controlli, se apre a uno snellimento delle procedure (bene), probabilmente taglia troppo gli angoli in termini di sicurezza e di trasparenza (male). È però lecito chiedersi, a fronte della quantità di progetti, della miriade di stazioni appaltanti, della TARrite acuta di tutti contro tutti, del feticismo del blocco e dei distinguo che contraddistingue le burocrazie pubbliche che ostentano la palude come simbolo di potere, cosa si sarebbe potuto fare.

Cosa, che non abbiano sperimentato gli altri.

Perché con il faldone nelle mani di Giorgia Meloni non esiste più parte politica nell’emiciclo parlamentare che non abbia toccato il Piano, da chi lo ha contrattato, a chi è stato ritenuto più adatto a metterlo a terra, a chi se l’è trovato da gestire nella fase da qui al 2025 in cui si aprono solo cantieri e si tira la cazzuola, mentre nel 2026 si fanno i ritocchi e le pulizie per le inaugurazioni, di tutto.

La tempistica è (era) questa, gli scarti possibili sono attualmente calcolabili nel giro di mesi e nuovamente siamo nelle mani dell’Europa. Posizione scomoda, anche perché l’anno prossimo ci sono le Europee, tutti tengono famiglia, la Destra ha appena vinto anche in Finlandia (e ci siamo bruciati un’altra eroina prog di carta) e magari a Francia e Germania potrebbe venire voglia di metterla giù dura per punire gli italiani cattivi e fassisti e fare bella figura con i propri. Poi non succede, ma potrebbe.

Per questo l’allarme rosso è giustificato, ed è assolutamente, e purtroppo, giustificata anche la sensazione che un governo politico, per quanto dotato di ampia e fresca base parlamentare, non possa da solo gestire questa mole di impegno a fronte della fragilità delle strutture e della, spesso dolosa e certamente intonsa, frizione che accompagna ogni processo amministrativo, frenando ogni corsa. È assai probabile, l’ho scritto scherzando su Facebook ma ci credo, che un Governo possa cadere su una cosa simile, nonostante la base parlamentare che si ritrova.

In alternativa, lo propone oggi il sempre lucido Pierferdinando Casini, si da al PNRR valore di passaggio nonpartisan, come la Costituente, si decidono assieme in Parlamento le modifiche da proporre all’Europa e le modalità per salvare capra (fluidificando la burocrazia) e cavoli (non dando gli appalti al cugino). Tutti quelli che partecipano si intestano gli eventuali successi e nessuno fa polemica.

Utopia? Certamente sì, ma se ci pensate sono sempre più i fenomeni così complessi che necessiteranno di pause dalla canea, altrimenti non si governano perché la politica al tempo dei social è troppo debole e troppo stupida. Se vuole sopravvivere al PNRR, alla Guerra, al global warming e a ChatGPT deve per forza trovare momenti in cui respira e parla normalmente prima di riprendere in mano il telefono e twittare stronzate.

Avanti a sbattere da soli o uno sforzo comune di sobrietà. Tertium, et tempus, non datur.

 

 

 

 

TAG: Governo Meloni, pnrr, Sala, Ue
CAT: Governo, Milano, Partiti e politici

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