Napolitano, un grande del Novecento che non ha capito il presente

9 Novembre 2014

“A un incontro dell’Abi abbiamo presentato uno studio, che dimostra che le sole dimissioni di Berlusconi e una rinnovata credibilità di chi governa il paese porterebbero immediato sollievo alla situazione finanziaria complessiva, ed è possibile immaginare anche un calo dello spread di 150 o 200 punti in pochi giorni”.

Erano quei giorni di primo autunno del 2011, giorni frenetici e di angoscia da spread, ore di paura e di risvegli dopo notti piccole per chi viveva sui e dei mercati. Giovanni Bazoli, il potente banchiere bresciano che guida da qualche decennio Intesa Sanpaolo e gioca tutt’ora un ruolo centralissimo nel sistema bancario italiano, parlava così a Giorgio Napolitano, e di questa premura riferiva in qualche conversazione riservata. Erano i momenti in cui tutta Italia guardava col fiato sospeso a Roma e a Bruxelles, alla Banca Centrale Europea e a Berlino. Erano i tempi in cui, peraltro, si ambientano i passaggi più importanti e noti del libro il Gattopardo, di Alan Friedman, che ha ricostruito il contesto in cui incubava il governo di Mario Monti, sostenuto anzitutto dal vecchio salotto della finanza italiana, e la sua nomina a senatore a vita: a guidare la partita, naturalmente, era l’attivismo del Presidente Giorgio Napolitano.

Ce la faremo? Ce la caveremo? La domanda, intanto, rimbombava per le strade di un paese che di colpo imparava parole nuove, intuiva in quel suono strano – spréd – il significato di decenni buttati via, di riforme rinviate, di verità scomode mai chiamate col loro nome. Giorgio Napolitano è stato l’uomo che ha accompagnato il nostro paese, dall’alto del colle del Quirinale, attraverso il decennio che ha sacrificato le ultime, poche verginità superstiti, e ha reso evidente che avevamo già perduto tutte le altre, a dispetto di ogni autocertificazione di purezza. Un cammino che vale la pena di ripercorre – per istantanee significative, più che non lungo una cronologia precisa e per forza di cose pedante – ora che, dopo la rivelazione di Stefano Folli su La Repubblica di sabato, l’eccezionale secondo mandato del Presidente della Repubblica sembra volgere davvero al termine, pur con tutti i se e i ma del caso, e una nota del Quirinale che nel parlare di “scenario noto” lascia comunque spazio di manovra a un grande manovratore della politica quale Napolitano è. Cinquant’anni nelle stanze romane, pressoché ininterrottamente parlamentare dall’immediato dopoguerra fino al cuore degli anni Novanta, primo ex comunista ministro degli interni, e da decenni di fatto candidato ad essere il primo nato e cresciuto nel partito di Togliatti a salire su colle più alto, a fare il presidente della Repubblica. Il destino si avvera il 10 maggio del 2006. Quando il momento arriva, in quella primavera post-elettorale del 2006, non si lascia scappare il momento, non gli può scappare il momento. Il momento non può scappare a Giorgio Napolitano e al piccolo gruppo di comunisti di minoranza che per quel momento lavora da decenni. Realismo? Idealismo? Ambizione? Spirito di servizio? Tutto e tutto insieme, come sempre, nella tradizione migliorista.

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Certo, di dubbi dalle sue parti non ne avevamo, perché chi incontrava Emanuele Macaluso, compagno fraterno di decenni di lotte interne alla sinistra italiana, si sentiva dire già ai primi di maggio: “Eleggiamo Gioggio”. Giorgio, Gioggio per il vezzo macalusiano di accentuare la mai perduta sicilianità. Ma come, gli si chiedeva, Berlusconi è contrario e D’Alema scalpita e…? “Eleggiamo Gioggio”. E così fu.

Ricordare oggi quell’elezione sembra lo studio per un esame di archeologia politica. Anzi, tecnicamente, di storia contemporanea. I berlusconiani che puntano il dito sul filo-sovietismo di Napolitano ai tempi dell’invasione di Ungheria del 1956. I comunisti della vecchia generazione che vedono suturare definitivamente una ferita mai chiusa, che ancora sanguina, quella che li vedeva in definitiva non affidabili, istituzionalmente. I democristiani di Casini che rompono il blocco del centrodestra e votano per Napolitano, contro D’Alema e contro Berlusconi, per mettersi con il loro 4% al tavolo di chi fa – si fa per dire – la storia. Quanto Novecento nell’aria, ed era appena nove anni fa. Nove anni fa: Prodi vincitore delle elezioni per il rotto della cuffia e sostenuto da una coalizione che andava da Mastella a Luxuria senza dimenticare il decisivo apporto dei senatori a vita. Berlusconi ancora in grandi forze, nel partito, nel paese, nella testa, e infatti ancora in grado di tornare in sella, di far girare per l’ennesima volta la ruota. Walter Veltroni che aspettava il suo turno, e così lo aspettava la sinistra italiana per un passaggio finale, quello verso il Pd, che doveva chiudere un decennio di transizione. Napolitano ha fatto in tempo a vedere tutti questi processi arrivare a maturazione, in molti casi una maturazione durata troppo poco perché incalzata e sconfitta dal marcimento del processo. Ha dovuto sancire la fine del centrosinistra prodiano, il ritorno trionfale dell’asse tra Berlusconi e Bossi – Bossi, già, pochi anni fa dava ancora le carte – e il logorarsi di quel mondo, sotto i colpi degli scandali, delle inchieste giudiziarie, dell’inazione politica, della crisi economica e delle pressioni internazionali.

A queste ultime, sicuramente, non è insensibile quando, esattamente quattro anni fa, nomina Mario Monti Senatore a vita. È una nomina che impone, di fatto, la prospettiva obbligata ad un intero arco costituzionale. In quei giorni, infatti, Berlusconi e il suo governo stanno per crollare sotto i colpi della crisi finanziaria, della speculazione internazionale, dopo una lunga emorragia di parlamentari del centrodestra iniziata un anno prima, in seguito all’insanabile rottura tra il presidente della Camera Gianfranco Fini e Berlusconi. Anche in quell’occasione Napolitano giocò peraltro un ruolo importante, dando quasi quindici giorni di tempo a Berlusconi per rinserrare le fila e riconquistare alla causa quel pugno di parlamentari che servirono a vedere confermata la fiducia delle Camere, nel dicembre 2010, dopo la scissione tra Pdl e finiani. Di contro, in quella violenta partita politica, Napolitano non ebbe mai a rimproverare Gianfranco Fini per aver interpretato in modo davvero spigliato la terza carica dello Stato: o, quantomeno, quei rimproveri, se ci furono, non arrivarono mai a bersaglio.

Resta che, quando il processo di logoramento politico di Berlusconi arrivò a definitiva maturazione, Napolitano non ebbe dubbi: la strada del futuro non passava dal voto, ma da un governo tecnico di larghe intese politiche. A chi, nel cuore del Pd, il suo partito, chiedeva elezioni subito e un mandato popolare, rispose duramente che no, alle urne non si tornava, se non dopo aver verificato l’impossibilità di formare un governo alle Camere. Quelle camere, piene di parlamentari miracolati dal carisma calante di Berlusconi e da una legge elettorale che premiava fedeltà ai capi più che non consenso vero, su cui era appena piovuta come un avvertimento la nomina di Mario Monti Senatore a vita. Quelle camere su cui la moral suasion di Napolitano e gli interessi piccoli e grandi, interni ed esterni, avevano funzionato come un sostanziale diktat, anche se Bersani a mezze parole aveva significato che era meglio andare a votare, e se avesse avuto la libertà e la forza politica per negare la fiducia a Monti nessuno gli avrebbe potuto negare l’esercizio pieno della democrazia. Del resto, un vecchio comunista di destra come Napolitano preferiva una relazione preferenziale con burocrazie interne e straniere, sicuramente a lui più congeniali, dell’avventura in mare aperto. Anche perché Napolitano, si diceva, aveva in tasca una promessa di Monti: mai e poi mai, dopo il servizio come premier, si sarebbe candidato in politica mentre sarebbe rimasto, certamente, disponibile per nuovi e alti servizi, e tra questi c’era senz’altro la successione a Napolitano. Ma quella forza Bersani e i suoi non ce l’avevano, e non gli mancava solo quello, e così arrivarono logorati da un anno di austero grigiore montiano all’appuntamento elettorale. Dalla periferia del partito ma per colpirlo al cuore, intanto, montava il ciclone di Matteo Renzi. Era lì da vedere e Giorgio Napolitano lo vide. Lo videro anche i suoi amici fidati, i compagni di quel comunismo di destra che li aveva resi minoritari in casa per una vita, ma finalmente egemoni e riconosciuti, con il crescente potere di Napolitano, come quelli che ci avevano visto giusto, prima: come Polifemo nella terra dei ciechi della sinistra italiana del Novecento.

Anche questa volta, con discrezione, senza troppe esposizioni, non si preclusero un rapporto con l’opposizione interna: non la appoggiarono, non la ostacolarono, e furono a volte vicini a chi, più e meglio, si trovò attrezzato ad attraversare il guado. Capitò a Roma, dove Giorgio Napolitano, tra i tanti quarantenni del Pd, strinse un rapporto solido, nel tempo, con Andrea Orlando, ex bersaniano di area “turca”. Ministro dell’ambiente con Enrico Letta, promosso per volontà di Giorgio Napolitano alla giustizia da Matteo Renzi, che avrebbe forse preferito un tecnico da cambiamento di verso. Ma non fu solo a Roma, i segnali di attenzione al nuovo mondo si videro per tempo anche a Milano. Dove lo storico tesoriere del Pci, un fedelissimo di Napolitano come Gianni Cervetti, uomo riservatissimo e da sempre attento all’arte della mimetica, non nascose la sua simpatia, costruita peraltro negli anni, a Lia Quartapelle, tanto da partecipare anche a qualche evento elettorale: decine di giovani, e un settantenne col colbacco e il sorriso da sfinge. Un fiume di preferenze alle parlamentarie del 2012, per questa trentenne che anche allora, in epoca di Bersani imperante e “unificante”, risultava essere dell’ala morbida per aver voluto, ad esempio, che almeno Giorgio Gori potesse parlare alla festa democratica di qualche mese prima. È la stessa Lia Quartapelle arrivata in home page come possibile ministro degli esteri poche settimane fa, prima della nomina di Paolo Gentiloni, e che magari ci tornerà, tra qualche mese, come possibile candidato sindaco di Milano in un dopo-Pisapia (eventuale) tutto da scrivere.

È proprio nei mesi del finale di Mario Monti, del sinistro scricchiolio della macchina di Bersani, del grido scanzonato di Renzi e del rombo assordante della massa grillina, che gli occhiali con cui Giorgio Napolitano guarda alla realtà mostrano le crepe più grosse. Non capisce che attorno a Monti si muovono poche decine di personaggi che vivono completamente fuori dal mondo, pur avendo residenza in Italia, che lo convincono che deve fare il passo, che gli italiani sono innamorati di lui. Scambiano il loro acquario di centro città (Milano, ma anche Roma) per il mare aperto di un paese a loro del tutto ignoto. La promessa fatta da Monti sulla sua non candidatura diventa carta straccia in un nulla, eppure chi aveva parlato con Napolitano appena un paio di giorni prima si era detto sereno: “Il Professore non farà sciocchezze”, giuravano. Allo stesso modo, il presidente della Repubblica, uomo dei compromessi, dei rituali, degli schemi del Novecento, lontano mille anni luce dalla contemporaneità refrattaria alla rappresentanza del secolo scorso e al suo bon ton istituzionale, è cieco di fronte all’onda grillina. A chi gli parla di un boom del Movimento Cinque Stelle risponde – tocca dirlo: in modo protervo, scorretto istituzionalmente – che l’ultimo boom che ricorda è quello degli anni sessanta.

Di lì a poco i Cinque Stelle diventano il primo partito, e in quel baillame, con Monti ormai inservibile dopo una campagna elettorale drammatica, senza più riserve della Repubblica spendibile, tocca ancora a lui – primo caso della storia italiana – farsi rieleggere da un Parlamento inetto come presidente della Repubblica. Resterà, certo, il suo discorso sferzante, alto, saggio, a un parlamento che lo applaude beota mentre lui denuncia tutto quel che non si è fatto e prescrive il dovere di fare quello che, neanche stavolta, si farà. Subito dopo, nega a Bersani di andare a confrontarsi con le camere cercando la fiducia perché nega, radicalmente, l’ipotesi che con Grillo e i suoi si possa parlare. Lo schema, l’unico possibile, passa per le larghe intese, e passa per un alleanza che porta al governo Enrico Letta. La geometria è fragile e quanto dura e come finisce lo sappiamo tutti. Berlusconi, ormai ombra di se stesso, rompe la tregua e consente perfino ad Alfano di ritagliarsi un ruolo decisivo. Ruolo che mantiene quando, appena diventato segretario, Matteo Renzi fa precipitare la situazione per sostituire un – incolore: del tutto incolore – governo Letta. Napolitano avalla così il terzo governo non eletto in tre anni, mentre nella quotidianità della vita istituzionale gioca un ruolo di controllo che rasenta la supplenza attiva. Sulle leggi, sui nomi dei ministri, sulle procedure fin nel dettaglio. Un ruolo politico ai limiti estremi del suo mandato costituzionale, dicono in tanti. Nel frattempo, la polemica sulla trattativa Stato-mafia arriva fino a un’audizione da parte della Procura di Palermo: in un paese in cui le mafie giocano un ruolo consustanziale alla vita stessa dell’Italia fin dalla sua nascita, c’è da credere che questa spettacolarizzazione non gioverà alla scoperta di verità scomode né a scalfire l’immagine – presente e storica – di Giorgio Napolitano. Poi, un bel giorno, affida a un retroscena l’ipotesi concretissima delle sue dimissioni e lascia la palla in mano dello stesso Parlamento che le riforme non le ha fatte fino ad adesso. Forse la stanchezza è diventata troppa, alla soglia dei novanta anni, e forse gli affetti più profondi, quelli di una vita, reclamano senza parlare le attenzioni che merita chi ha saputo amare e tacere, al fianco di un grande uomo.

Si avvia così al suo finale una stagione che non è solo la Presidenza di Napolitano, è proprio il Novecento italiano. “Giorgio non rompeva mai. Io me lo ricordo quando, a fine anni Settanta o nei primi anni Ottanta, aveva vicino filosofi liberal come Salvatore Veca e parlava senz’altro più facilmente la lingua dei socialisti che non dei suoi compagni di partito. Noi gli dicevamo: usciamo allo scoperto, rompiamo. Ma Giorgio diceva sempre di no”. Chi era con lui, a far politica, ricorda bene questi passaggi, e il diniego costante all’ipotesi di rotture e traumi. La storia si sarebbe compiuta da sé, sembrava pensare Napolitano. E la sua, sicuramente, è una storia che si è compiuta nel senso più alto, più pieno, come meritava un grande talento politico. Alla fine del suo percorso, tuttavia, l’Italia non è né più solida economicamente né più matura politicamente. Il tempo solo dirà se questo decennio, segnato da lui indelebilmente, avrà in qualche modo covato un futuro migliore o sarà stato l’ultimo, disperato tentativo, di piegare una società e una realtà a schemi politici e culturali che erano crollati, insieme a un muro, il 9 novembre del 1989.

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CAT: Governo, Parlamento, Partiti e politici, Politica

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