Il Partito catodico – Introduzione e Prima Puntata

2 Maggio 2021

Quando Paolo mi ha proposto di parlare di quel che trovate qui sotto, ho anzitutto dovuto fare i conti col mio cinismo. Ma come, davvero vogliamo ancora parlare di politica? E ancora, per chi si sente dentro alla storia del progressismo italiano, davvero vogliamo immergerci ancora nella “preistoria” di quello che fu il comunismo italiano sperando di cavarne un ragno dal buco? Le mie resistenze stavano a metà tra la stanchezza di chi non riesce più a crederci e quella di chi, per generazione e inclinazione, non ci ha mai creduto.

Poi ho letto il suo viaggio nel passato, e ho capito che in realtà c’erano principalmente semi di futuro. C’era, soprattutto, la tensione che serve per analizzare con disincanto le radici dei limiti di oggi. Nello spaesamento che un ex militante giovane comunista registra, in queste pagine, ci sono infatti tutti i temi nodali di un viaggio che la sinistra italiana non ha ancora concluso, e che ogni tanto sembra una traversata di un deserto grande quanto una città di provincia, eppure disorientante come fosse un’intera galassia. C’è la ricerca infruttuosa di una nuova identità, mai abbastanza definita in termini generali, e che quindi finisce col realizzarsi solo attraverso la sommatoria di minoranze che reclamano diritti individuali. Sacrosanti, naturalmente, a patto di non diventare l’unico oggetto possibile di rivendicazione, o l’unica piattaforma possibile perchè anche l’unica “non divisiva” all’interno di quello che nel tempo diventa il vero cuore politico della sinistra italiana, cioè il centro benestante dei centriurbani.

Nei vuoti che qui tratteggio, e che Paolo Manfredi approfondisce nel suo scritto, ci sono naturalmente anche indicati i “pieni”, nella capacità di un ritorno a un rapporto organico col mondo dei lavori e dei lavoratori, e immaginando nuove faglie di conflitto dinamico che vedano dalla stessa parte i lavoratori e i produttori, e dall’altra la ricchezza improduttiva e le rendite.

Il programma è sicuramente vasto, per una persona sola. Ma è solo dalla ri-presa di coscienza della materia fondativa che potrà ripartire davvero la politica, alla fine dell’indistinzione propagandistica tra destra e sinistra, e della sbornia – seguita da puntuale bornout – per il salvatore di turno. Il viaggio di Paolo diventa così nostro, mio e di tutti coloro che, sapendo un po’ di passato hanno ancora voglia di guardare al futuro.

Jacopo Tondelli

 

Introduzione, ovvero come leggere queste pagine senza pensare che io sia un mitomane

Ho pensato di scrivere queste righe nel passaggio tra il Governo Conte II e il Governo Draghi (I?) e tra la Segreteria Zingaretti e la Segreteria Letta, francamente sconcertato da quella che mi pareva l’ennesima torsione del mio partito di riferimento di fronte agli imperativi variamente declinati della “Ragion di Stato”.

Sono stato un elettore postcomunista da quando ne ho avuto il diritto, con le parentesi della “Rosa nel pugno” alle Politiche del 2006 e di qualche astensione, quando l’offerta era troppo sotto le mie aspettative. Saltuariamente ho anche partecipato alla vita del partito, quasi sempre con un entusiasmo che non sono riuscito a mantenere e che invidio ai militanti di base più fedeli.

Secondo la tassonomia di Tripadvisor, queste esperienze mi collocano tra il livello Recensore e quello di Recensore Esperto, assai sotto a Recensore Super, ma certamente più di Contributore (che è ben più occasionale). Con questo spirito di recensore non professionista (e, spero, meno arrogante e stolto di molti recensori su Tripadvisor) ho pensato di mettere in fila alcune considerazioni sull’area culturale e politica alla quale sento di essere più vicino, ma che negli ultimi tempi mi ha regalato a piene mani ben più delusioni che gioie.

Sono figlio di artigiani tutt’altro che comunisti. Ho scelto questa parte politica autonomamente, convinto che fosse popolata di brave persone e che se gli si fosse dato retta le cose sarebbero andate meglio per la maggior parte delle persone. Oggi, sono ancora convinto che da questo lato le brave persone siano maggioranza, anche se sono più tollerante verso le brave persone che non la pensano come me. Sono andato invece maturando dubbi crescenti sul fatto che a Sinistra vi fossero e vi siano le risposte per fare andare le cose meglio. O forse ho capito, e la cosa fa ancora più arrabbiare, che ve ne sono molte, ma sepolte sotto fiumi di parole vane, rivendicazioni sbagliate, mancanza di coraggio, bisogno insistente di piacere alla gente che piace.

Quando sono entrato nella Chiesa di lì a poco postcomunista, sono entrato in un mondo per larghissima parte in crisi d’identità, culturale, politica, di prospettive. Un edificio barocco che stava perdendo pezzi, fedeli e pure fede, costantemente solcato da restauratori tremanti e inesperti e da traslocatori che portavano via un pezzo qui e uno là.

Questa coscienza perenne della crisi, senza alcuna se non parziale e temporanea redenzione, è anche psicologicamente assai provante, toglie motivazione. La vicenda dei postcomunisti negli ultimi trent’anni è stata nella pratica e nell’elaborazione culturale un lungo e faticoso tentativo di superare un lutto e di tornare compiutamente a vivere il proprio tempo, ritrovando una collocazione ideale e un ruolo storico nel mondo che cambiava. Non penso francamente ci siano riusciti, ma è anche vero che nel frattempo la linearità apparente dei tempi lunghi della Storia analogica e fordista ha lasciato il posto al frastagliamento dell’era digitale, in cui tutto cambia così velocemente che la ricerca di un’identità è un viaggio che ha senso di per sé, anche senza un approdo (che forse non esiste).

Questa comunità in crisi ha, e soprattutto avrebbe, tanto da dire e da dare all’Italia, se solo fosse capace di smettere le grisaglie alle quali si è abbarbicata, più che per eccesso di senso dello Stato e voglia di essere come tutti che per amore del Potere. Se tornasse ad essere curiosa e indulgente verso le deliziose stramberie e complessità di un Paese unico. Se uscisse dai piccoli mondi dei borghesi petulanti, convinti che la politica oggi debba dedicarsi solo a soddisfare i loro desideri e lenire le loro incessanti paure. Fuori troverebbe gente strana e sgrammaticata, ma affascinante: contadini, artigiani, cuochi, imprenditori, operai, artisti, sindaci e professori, che soprattutto non ha mai smesso di creare e immaginare, fregandosene degli stampini della globalizzazione.

Come tutti i recensori non professionisti, la racconto per come la sento e come me la ricordo. Posso aver dimenticato qualcosa o qualcuno di fondamentale, o enfatizzato elementi di nessuna importanza, ma almeno non ho scritto balle, almeno non volontariamente.

Per questo, parlo del PD come ultima manifestazione dell’evoluzione postcomunista in continuità con il PCI, anche se ovviamente vi sono confluite altre tradizioni politiche e culturali, in primis quella della Sinistra DC. Lo so, ma è un mondo che non conosco, di cui non faccio parte e di cui non ho molto da dire. Sono, ripeto, un recensore esperto ma non professionista, e preferisco dirla come l’ho capita e la sento.

Alla famiglia postcomunista mi legano ricordi, affetti profondi che sono rimasti ben oltre la fine della militanza, libri e film; forse gli devo anche i miei studi universitari e un certo modo critico di vedere le cose. Non è poco e certamente basta per dire che in fondo, nonostante tutto, le voglio bene.

Per questo mi piacerebbe vederla più contenta e sistemata.

Non ho avuto la fortuna di aver avuto genitori comunisti (semicit.)

Mi sono iscritto alla Federazione Giovanile Comunista Italiana nel 1990 e al Partito Comunista Italiano nel 1991, mentre ero al liceo. La tessera, cartacea, aveva in copertina una bella foto in bianco e nero di un bambino che gioca, con la sua ombra ricolorata con i colori arcobaleno e lo slogan: “dalla Resistenza al futuro”.

Sembra bizzarro oggi, e forse lo era anche allora, ma mi sono avvicinato al PCI proprio perché, da totale outsider di famiglia modesta e non comunista, mi sembrava che in quel partito risiedessero le energie migliori e si prestasse attenzione ai temi del futuro in un momento di enormi cambiamenti. Ricordo che decisi di rompere gli indugi ed iscrivermi leggendo l’Unità e un articolo sull’Amazzonia, preda di un infinito saccheggio di cui si stava occupando Sting. Un corto circuito tipicamente adolescenziale aveva messo insieme Sting, il capotribù aborigeno Raoni e Achille Occhetto in un ideale Pantheon delle persone buone e delle cose giuste.

Da allora non ho mai definitivamente smesso di frequentare quella comunità nelle diverse forme che ha preso; dapprima molto attivamente, poi più come osservatore attento, elettore (abbastanza) fedele, parte anche molto critica di una cultura a cui è legata molta della mia storia, delle mie amicizie, del mio pensiero.

Mi sono iscritto alla FGCI e al PCI, sfidando lo sconcerto e i timori di mio padre, perché ritenevo davvero in buona e ingenua fede che in quella comunità risiedessero le energie migliori del Paese, che fosse un cosmo di persone colte e oneste, con una superiore dedizione a impegnarsi per il bene pubblico. Dedizione che sarebbe di lì a poco risaltata ancora di più a fronte dell’esplosione dei partiti del Governo infinito in seguito a Tangentopoli.

Pensavo, pensavamo nella mia bolla, che il PCI non fosse “scampato” a Tangentopoli, ma che la sostanziale estraneità dei comunisti alla corruttela diffusa fosse la prova provata della loro alterità, come si diceva all’epoca. Eravamo davvero diversi, e il tempo e la magistratura lo stavano provando. Non solo, il disvelamento anche ai più riottosi a riconoscere la nostra diversità e la fine della “conventio ad excludendum” della Guerra Fredda avrebbero condotto la comunità di cui facevo parte e i suoi leader al governo del Paese.

Un governo che, impossibile da esercitarsi a Palazzo Chigi, si esprimeva quasi sempre con ottimi risultati negli enti locali. Ho seguito la vicenda di Tangentopoli da studente universitario (non più militante) a Bologna, dove erano plastiche la forza, le caratteristiche e anche i limiti del governo delle regioni rosse. Era un impasto di sviluppo economico pesante, comunità coesa e rispetto delle regole, con una presa di organizzazione che a tratti sfiorava l’irreggimentazione.

Visto da Bologna, il governo a guida comunista era un mix perfettamente funzionante e a tratti un po’ noioso di servizi pubblici svizzeri, aggregazione sociale e capitalismo diffuso. Assolutamente nulla di spaventevole: l’URSS era un cimelio, Peppone una maschera. Il comunismo emiliano (e toscano e umbro) che ho conosciuto io era buona amministrazione, case del popolo e spesa alla Coop, polmone finanziario legittimo di tutta la comunità.

Non è un caso che dal 1946 fino al 2007 il PCI e le sue derivazioni non abbiano mai avuto un Segretario nazionale né emiliano, né toscano, né umbro: erano ottimi responsabili dell’organizzazione ma privi dell’abitudine partigiana e operaista alla pugna politica che animava ad esempio i piemontesi, iper-rappresentati dirigenti in ogni epoca del comunismo italiano.

Proprio a Bologna, nel novembre del 1989, l’ultimo segretario del PCI, il torinese Achille Occhetto, aveva dato vita a un processo di trasformazione senza eguali per durata, intensità, significato e connesso psicodramma nella storia politica italiana: il cambio del nome del più grande partito comunista d’occidente.

Chi non ha memoria della catarsi politica che terremotò la sinistra italiana tra il 1989 e il 1991, o peggio è aduso ai tempi e al bovarismo delle svolte politiche di oggi, per le quali basta un tweet per cambiare un partito o un Governo, non può capire il dramma, le cui conseguenze continuano a proiettarsi a trent’anni di distanza. Bisogna almeno guardarsi “La Cosa”, il documentario realizzato nel 1990 da Nanni Moretti, che registrò i dibattiti in alcune nelle sezioni del PCI di tutta Italia, dove militanti in carne e ossa si accapigliarono per due anni per capire, contribuire, elaborare (e alcuni rifiutare) il lutto di dover cancellare un aggettivo che aveva fatto la storia repubblicana. Fu un travaglio lungo e doloroso, necessario a elaborare il superamento di un’identità pesantissima, che comprensibilmente non riusciva a superare indenne la fine della Guerra Fredda e la caduta di quei regimi comunisti, ai quali era ormai in modo del tutto peculiare associata.

Al di là della falce e martello e delle boutade dei CCCP, nessuno della mia generazione si era accostato al PCI e alla FGCI credendo veramente che l’Unione Sovietica, o tantomeno i paesi satellite, fossero modello di alcunché di positivo. Molti erano antiamericani, nel modo peculiare in cui lo era Michele Serra che nel 1991 scrisse un pezzo di venti righe di sunto della cultura americana di cui era/eravamo imbevuti per poi concludere che la cultura americana non l’aveva mai influenzato, e per questo avevano sviluppato una fascinazione per Cuba e un certo terzomondismo. L’America era Reagan e Bush, la fucina cultural politica delle bombe, dell’imperialismo e degli odiati anni ’80, Cuba era la sanità universale, la scuola per tutti e Davide contro Golia. Era un comunismo vacanziero, più potabile. Io non ci sono ancora mai stato.

Dal comunismo sovietico ci avevano salvato la doppiezza di Togliatti, il pensiero di Gramsci, il coraggio di Berlinguer e forse la complessità di ogni cosa in Italia, per cui le cose non sono mai tagliate con il falcetto come vuole l’ideologia e dappertutto c’era un po’ di comunismo mischiato con un po’ di cattolicesimo. Per noi l’ultimo filosovietico era Armando Cossutta, simpatico dirigente comunista milanese e interista, e se c’era ancora l’apparato descritto dalla penna geniale di Lodovico Festa noi non ce ne eravamo accorti.

Per conseguenze storiche, il 12 novembre del 1989, nella sezione della Bolognina, Achille Occhetto annuncia l’avvio di una fase costituente che porterà al cambiamento del nome del PCI. Poco meno di due anni dopo a Rimini piangerà alla fine del congresso che lo ha appena eletto Segretario del nuovo partito. Si chiama Partito Democratico della Sinistra, PDS, il simbolo una quercia, sotto la quale campeggia in miniatura il vecchio simbolo del PCI, le bandiere rossa con la falce e martello e italiana disegnate da Guttuso.

Il richiamo botanico, primo di una seria fin troppo nutrita, è un omaggio agli alberi della libertà della Rivoluzione Francese, che soppianta l’ormai scoloritissima Rivoluzione Russa come riferimento ideale. Dai richiami a una rivoluzione di classe, il PDS passa a identificarsi con una rivoluzione borghese.

È il primo passo di un cantiere, ancora spalancato, dedicato alla faticosa ricerca di un’identità.

In trent’anni, il cantiere passerà dal Partito Democratico della Sinistra (1991-1998) ai Democratici di Sinistra (1998-2007) con il simbolo del PCI che scompare dalle radici della quercia, per lasciare spazio all’ibridazione (ancora una volta più libresca che reale) con altre culture politiche della Sinistra, per poi culminare nella fusione con il partito della ex sinistra DC e la nascita del Partito Democratico (2007-in corso).

È stato un cantiere agitato, mai completamente soddisfacente, che ha generato scontenti e perso pezzi alla sua destra e soprattutto alla sua sinistra, i quali a loro volta sono sempre finiti su un binario ancora più morto.

Per questa ragione tratterò il cantiere del PD come un unico lotto, un cantiere ancora alle prese con lo stile architettonico del progetto. Di più, con la destinazione d’uso dell’edificio.

(continua…)

 

TAG: Comunisti, ds, pci, Pd, pds, postcomunisti
CAT: Governo, Partiti e politici, Storia

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