Appunti per una teoria economica della morte in mare

6 Agosto 2017

In una giornata che si è aperta con Roberto Saviano su Repubblica e si è chiusa con Erri De Luca su La7, al termine di una settimana in cui il dibattito si è focalizzato sulle ONG, ancora meglio, contro una ONG tedesca che riunisce i nostri incubi più intimi, immigrati e tedeschi, il pensiero del nostro paese, quello degli intellettuali e quello della politica, sembra diviso. Potrebbe dare addirittura l’impressione di uno scontro tra l’espressione del cuore, che viene dagli scrittori e dai poeti, e quella della mente fredda del realismo politico. Ma non è così. Da un lato c’è pensiero, con la mente più che con il cuore, e dall’altro ci sono frasi fatte che rimandano le eco di strade e bar, sublimate in quelli che chiamiamo “sondaggi”.

Pare quindi l’occasione per organizzare le idee per un modello economico della migrazione economica, l’unica che ci interessa, come ha detto Erri De Luca, perché è l’unica motivata da un progetto di lungo periodo. I rifugiati infatti vogliono solo tornarsene e casa. Fare un modello economico significa giustificare la decisione di migrare come scelta razionale. Ovviamente lasceremo perdere la rappresentazione matematica, anche se a sorpresa una considerazione di tipo matematico proverrà da Saviano.

Il modello riprende l’idea di quello di Todaro-Harris, sulla migrazione dalla campagna alla città, basato sulla probabilità di occupazione in città e sulla differenza tra reddito in città e campagna. Noi lo rendiamo solo più estremo sostituendo al rischio di disoccupazione il rischio di morte e aggiustando la differenza di reddito per la differenza tra l’aspettativa di vita, “a casa nostra” e a “casa loro”.

Mettetevi nei panni di un ventenne che dall’Africa deve scegliere se continuare a vivere a casa propria o tentare la via del mare per arrivare in Europa. A bocce ferme, se il nostro immigrante potesse sparire da casa sua e riapparire a casa nostra, europeo a tutti gli effetti senza alcun rischio e sforzo, si troverebbe con una aspettativa di vita più lunga di qualche decina d’anni. Diciamo che se a casa sua l’aspettativa di vita è 60 anni, da noi è 80.  Poi c’è la differenza tra i tenori di vita, e qui la scelta diventa più difficile, perché dipende da scenari di lungo periodo. Il tenore di vita dipende dal ruolo che l’immigrato potrà rivestire nella nostra società, se nella nostra comunità potrà trovare opportunità di competere, e se ai suoi figli saranno date le stesse opportunità dei figli degli altri. Questa è la scommessa determinante. Vale la pena emigrare se tra venti anni l’equilibrio delle nostre comunità sarà fortemente multietnico, e magari il nuovo equilibrio avrà messo in secondo piano le vecchie divisioni nostalgiche della vecchia Europa, tra Napoleoni, cancellieri di ferro e diplomazie dei “giri di valzer”.

Se si crede in questa scommessa, vale la pena vivere fino a 80 anni, e non ci sarebbe esitazione a migrare. Ma la scelta non è a portata di mano. Per raggiungerla bisogna per molti anni sopportate una probabilità di morire molto più alta di ogni altro ventenne del pianeta, eccezion fatta gli altri ventenni che servono in guerra. E infatti, nelle grandi migrazioni di cui ci hanno fatto studiare la storia, le invasioni barbariche o i mongoli, il prezzo che ogni migrante pagava era proprio quello del rischio di morire in una guerra di invasione. Anche oggi i migranti sono arruolati in un esercito, in un’armata che non combatte contro nessuno, ma con la stessa probabilità morte, in una serie di prove di coraggio che fanno da contrappunto grottesco ai “reality” che infestano le nostre televisioni.

Una probabilità di morire o di essere respinto pari al 25% (uno su quattro) riporterebbe l’aspettativa di vita a 60 anni per il nostro migrante, sia che resti a casa o scelga di migrare. Dal suo comportamento di fronte al rischio – non il rischio di un investimento sbagliato, il rischio di morire – e di come questo rischio è distribuito nel tempo dipenderà la sua scelta. E la scelta dipenderà anche dalla differenza di vita nell’Europa e in Africa tra venti anni. E poi ci saranno condizioni specifiche che modificheranno la scelta per ogni individuo, come la presenza di parenti in Europa e simili. La scelta di funzioni di utilità e di preferenza intertemporale sarebbero i prossimi passi, che però ci allontanerebbero da un post e ci porterebbero verso un articolo scientifico.

I caratteri principali del modello però ci sono tutti, anche se alcuni parametri si riferiscono a scelte così estreme, la vita o la morte, che sono più difficili da rilevare delle scelte di consumo o di investimento che gli economisti sono abituati a trattare. Però, senza pretese di arrivare ai numeri, c’è quanto basta per interpretare le politiche che noi e l’Europa stiamo tenendo, e quelle di cui stiamo parlando.

Quello di cui stiamo parlando, “aiutarli a casa loro”, è la parola d’ordine più utopica. Quando viene portata giù dalla caverna delle idee diventa un aumento dei trasferimenti ai paesi in via di sviluppo, che sappiamo tutti che non arrivano: ce l’hanno insegnato a scuola. Per questo, per aiutarli a casa loro dovremmo andare noi a casa loro, mettendo scarponi sul terreno o dirottando là i nostri investimenti. Siamo sicuri di volerlo fare? E chi comincia?  Comunque noi italiani, che per secoli abbiamo combattuto con l’arretratezza del nostro sud senza venirne a capo, abbiamo già pronto il glossario: “cattedrali nel deserto”, “sviluppo a macchia di leopardo”, ecc…

Quello che invece stiamo facendo è aumentare la probabilità di morte o di respingimento. Come in una guerra, la scelta è la decimazione dell’avversario, e la sua rotta. Ma, come in ogni guerra, c’è un fronte interno da tener presente. C’è l’opinione pubblica. E siccome non si può passare direttamente per le armi chi arriva, o farci un “reality” sopra, si usa la nostra arma di distruzione di massa più sperimentata ed efficiente: la burocrazia. Si mette non solo sabbia, ma pietre, negli ingranaggi del salvataggio, in modo che la probabilità di salvataggio diminuisca, e il migrante razionale desista dal partire.

Questa è la tesi che Saviano ha avanzato in un suo intervento su Repubblica e che il nostro modello supporta. Saviano si spinge addirittura a suggerire un modello matematico di come una norma, il divieto di trasferire migranti da una nave all’altra, riduca la possibilità di ripartire in maniera ottimale i migranti tra le navi, riducendo così la capacità, e quindi la probabilità di salvataggio. Appunto da tenere in considerazione per il dettaglio matematico del modello. Qui aggiungo soltanto una nota tristemente ironica: quello che il decreto Minniti fa con le navi, sul piano matematico, è esattamente lo stesso che l’Europa ha fatto, e continua a fare, con noi. Impedire una distribuzione ottimale su delle navi o in dei paesi ha lo stesso significato.

Ma il pensiero politico oggi non sta nelle menti dei politici. Il pensiero politico di oggi deve essere più che “buonista”, e quindi deve essere “ottimista”, come ha detto Erri De Luca, perché deve vedere l’unico equilibrio possibile nel futuro. E l’ottimismo è lo stesso che anima il nostro “migrante razionale”. E’ credere che tra vent’anni ci sarà un’Europa, e ci sarà un’Europa solo se sarà multietnica. Perché oggi ci sono solo due categorie di persone che credono nell’Europa: i migranti, che rischiano la vita per venirci, e noi “ottimisti” nel senso di Erri De Luca.

TAG: erri de luca, immigrazione, Minniti, ong, Roberto Saviano, Todaro-Harris
CAT: immigrazione, Teoria Economica

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