Lavoro

Le ragioni economiche del sì ai referendum sul lavoro

6 Giugno 2025

Il dibattito sui referendum che riguardano il Jobs Act viene dipinto come uno scontro tra riformisti e  massimalisti. La maggioranza di destra la definisce come una questione interna alla sinistra, e poi con la coerenza che la contraddistingue ha fatto la campagna elettorale, e l’ha fatta senza esclusione di colpi, fino a disturbare il teatro dell’assurdo: logica à la Wittgenstein vorrebbe che di ciò di cui non si va a votare non si dovrebbe fare propaganda, e invece abbiamo visto tutta la destra astensionista occupare le tribune elettorali. E il rumore ha coperto ancora di più il merito dei quesiti.

Però è vero che c’è una questione interna alla sinistra, che rimanda ai tempi di Renzi, e le cui radici sono forse ancora più lontane. Si manifesta in tutti i campi del governo, e vede da una parte esponenti che si definiscono “responsabili” e dall’altra quelli che invocano la questione sociale. Nella questione del lavoro il terreno dello scontro è il Jobs Act e il tema è la “flessibilità”. Il quadro è quello di dotti moderati che invocano quello che un tempo i ministri democristiani chiamavano “le compatibilità economiche” contro massimalisti che rivendicano la centralità della tutela del lavoro.

A mio avviso questa descrizione non corrisponde al merito della legge di cui si sta discutendo.  Ho avuto forti dubbi sul Jobs Act anche ai tempi in cui ero sul carro di Renzi insieme a mezza Italia, ed erano dubbi più da economista che da simpatizzante politico. Prima di entrare nel dettaglio, questa era la mia sensazione: con la legge un lavoratore offriva un’opzione al datore di lavoro, un’opzione in senso tecnico, ma in cambio di che cosa? Nel mio lavoro io sono abituato a dare un prezzo a tutte le opzioni, e non solo opzioni su prodotti finanziari. Nella scelta di un macchinario, si calcola l’opzione di disinvestimento, nell’ipotesi che il macchinario non serva più. Possibile che non si possa fare lo stesso per un lavoratore? Possibile che al lavoratore non sia consentito di contrattare un prezzo per questa “opzione reale”(questo è il termine tecnico, chiamatela flessibilità se preferite)?

All’epoca ne parlai con qualche collega, e anche con un avvocato che difendeva i diritti del lavoro, ma senza sviluppi. Difficile introdurre economisti al concetto di “opzioni reali” e impossibile convincere un giudice. Oggi nella prospettiva di andare a votare sono andato a vedere più nel dettaglio il Jobs Act e ho scoperto che c’è molto peggio. In tutta la legge c’è l’attenzione a definire nei dettagli il prezzo di questa opzione, con attenzione a limitare i costi per il datore del lavoro più che una garanzia per la parte debole, il lavoratore. Il livello più estremo e paradossale di questo approccio è una norma che arriva a definire un limite massimo di mesi di stipendio che il lavoratore potrebbe voler richiedere, in via stragiudiziale, al datore di lavoro in alternativa al reintegro.

Fissando per legge, per sempre ed ovunque, un prezzo a questa opzione che il lavoratore è costretto a vendere al datore di lavoro,la legge ha fissato per sempre il prezzo del lavoro. Per questo il Jobs Act non è stato affatto un provvedimento di flessibilità del lavoro; è stato una sorta di “equo canone” a favore delle imprese. Lascio agli economisti del lavoro studiare se questo bizzarro esperimento di “prezzo amministrato” abbia contribuitoall’aumento della domanda di lavoro, e del suo deprezzamento. Certo che se fisso per legge il costo di rinunciare a un fattore di produzione, questo influisce sulle decisioni sul suo utilizzo.

La volgarizzazione del concetto di flessibilità del lavoro di cui si parla oggi viene da lontano. Sui banchi dell’università, uno dei miei maestri, Ezio Tarantelli, ci faceva portare all’esame un suo modello in cui la flessibilità del lavoro in uscita avrebbe avuto un effetto positivo sulle assunzioni. Era un modello teorico sofisticato, anche se lui stesso era uso dire che prima di conoscere la teoria è bene conoscerne la volgarizzazione. Sono certo che però sarebbe inorridito all’idea di realizzare la flessibilità in uscita con una simile armatura a difesa dell’impresa, fatta di un prezzo definito una volta per tutte, e sottratto alla contrattazione tra le parti sociali e la politica che tanto gli era cara. In conclusione, voto sì perché si era più flessibili quando lo si era meno.

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