Smart working non è lavorare da casa. E non è per tutti

2 Settembre 2021

Il primo lockdown ha avuto conseguenze pesanti sull’economia e sull’occupazione, in particolare per le imprese del terziario. Larin – una piccola Srl attiva nel campo della programmazione e del marketing digitale con base a Belluno e uffici a Padova e Bolzano – lo ha colto come opportunità. All’inizio di maggio 2020 in poche settimane ha disdetto bollette e contratto di affitto dei tre uffici e tutta l’azienda è stata trasferita on line. Soci, dipendenti e collaboratori occasionali operano esclusivamente a distanza trasformando così un obbligo dovuto all’emergenza sanitaria in una scelta.

In questo anno e mezzo dall’inizio della pandemia la nostra vita professionale è rimasta appesa a uno schermo e un microfono. Con il passare dei mesi stanchezza e alienazione si sono fatte largo sostituendo silenziosamente i sentimenti di fiducia e il sollievo per il mantenimento del lavoro.

Per questo mi incuriosisce verificare come un’organizzazione complessa, per quanto di dimensioni ridotte come una Pmi in una piccola città come Belluno, riesca a sopravvivere senza un luogo fisico dove incontrare i clienti, dove dipendenti e collaboratori possano scambiarsi informazioni, socializzare e alimentare una cultura aziendale comune.

Senza un ufficio Larin e senza un ufficio io, incontro il fondatore, Marco Da Rin Zanco, vicino casa sua, ai tavolini del bar di una piazza di Cavarzano, il principale quartiere residenziale del capoluogo delle Dolomiti. Per inciso, ho opposto un gentile ma fermo diniego alla proposta di intervista a distanza, attraverso un computer. Nonostante quasi quindici anni di frequentazione, di percorsi professionali che talvolta si sono incrociati come pure le attività in ambito amministrativo e politico, non me la sentivo di aggiungere un’ulteriore intermediazione tra la fonte e i lettori. Facciamo una cosa all’antica, ricordi e pensieri da un lato del tavolo, bloc-notes e penna dall’altro, tanta birra in mezzo.

Sei soddisfatto della scelta di lavorare esclusivamente da remoto, oppure ci stai ripensando?

«Nessun rimpianto anzi, sono, siamo tutti contenti».

Siamo, cioè tu e il tuo socio, ma dipendenti e collaboratori?

«No no, sono loro i più felici ed è stato su loro spinta e richiesta che ci siamo avventurati con largo anticipo nello smart working. Ci stavamo lavorando da tempo al passaggio di ‘virtualizzare’ l’azienda. Il vantaggio che vedevamo era doppio, liberarci da una serie di costi fissi legati agli spazi fisici e aumentare la flessibilità del lavoro. Il programma era di ‘staccare la spina’ tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Avevamo cominciato, per esempio, dismettendo i computer fissi e dotando tutti di portatile e in alcuni casi, c’erano dipendenti che facevano già una quota di lavoro da remoto. Poi è arrivato il Covid e abbiamo passato marzo e aprile dell’anno scorso forzatamente ognuno dentro casa sua. Ma noi, rispetto ad altre realtà, eravamo un po’ più preparati».

Forse sono io a non capire, però il dipendente che rimane a casa si paga le bollette, in primis per la connettività, poi il riscaldamento e magari non ha neppure un orario di lavoro stabile perché ‘tanto è a casa’ quindi lo puoi attivare in qualsiasi momento della giornata o della settimana. Cosa ci guadagna con questa flessibilità?

«La questione è più semplice di come te la immagini, soprattutto dal lato lavoratore. E i conti devi farli tutti altrimenti il risultato è falsato. Primo, nessuno dei nostri dipendenti o collaboratori era privo di connettività propria. Secondo, chi di noi abita nelle vicinanze dell’ufficio di Belluno, ma non poteva raggiungerlo che in auto, era costretto a pranzare fuori. Per quanto poco, insalata, mezzo litro d’acqua e caffè seduti a un tavolo costano tra gli 8 e i 12 euro. Poi c’è il parcheggio e fanno  altri 6-7 euro al giorno, oppure nella migliore delle ipotesi 1-2 euro al giorno in abbonamento. Ogni giorno cinque giorni la settimana. Per quelli di Padova, che pure sono abbastanza vicini all’ufficio il problema era il traffico. Con qualsiasi mezzo, bici, bus, auto, un’ora al giorno dovevano passarla tra  lamiere e tubi di scappamento. Tanto è vero che a fine aprile del 2020 quando si cominciava a parlare di riaperture abbiamo chiesto a tutti i nostri collaboratori cos’avrebbero voluto fare, con colloqui individuali. Tranne una persona, la domanda è stata di non rientrare in ufficio. In ogni caso, stai sbagliando approccio, perché smart working non è ‘lavorare da casa’».

Per molti lo è e si tratta di una disgrazia. Chi non ha spazi o deve condividerli con altri familiari spesso si ritrova ad accendere il computer accanto ai fornelli, alla lavatrice che fa la centrifuga o magari è costretto al tavolino di un bar.

«Non dubito, infatti questo era il secondo punto del mio discorso. Finiamo il primo e poi lo affrontiamo. Smart working significa lavorare dove si desidera perché non si ha un ufficio fisso. Due nostri collaboratori sono stati per mesi alle Canarie. Io stesso ho passato diverse settimane in montagna, nella casa dei miei nonni. Di più, significa applicare entro certi limiti un buon grado di flessibilità perché non va garantita la presenza fisica e non è necessario timbrare un cartellino. Sul tempo dedicato al lavoro c’è il contratto a fare da bussola. Io non posso impiegare una persona per un numero maggiore di ore di quelle previste dal contratto, indipendentemente che sia in un ufficio fisico, a casa sua o su un’isola in mezzo all’oceano. Su questo aspetto ci siamo dotati di un sistema digitale che conta le ore fatte di ogni dipendente o collaboratore che rappresenta un limite da non oltrepassare, anche perché cerchiamo di non accumulare straordinari. Poi certo, c’è l’altra questione a cui accennavi ed è reale».

Un autoritratto di Marco Da Rin Zanco

Prova a convincermi.

«Lo smart working non è per tutti. Questo vale sia per i lavoratori sia per le imprese. In questi mesi un paio di persone ci hanno lasciato anche perché soffrivano questa situazione. Alla prima opportunità hanno preferito aziende che offrivano un posto di lavoro tradizionale. E va bene così, non c’è nulla di strano. Però, attenzione, nel frattempo ne abbiamo assunte altre otto, sopratutto al sud e che non si sono ancora mosse da dove abitano, proprio garantendo la possibilità di lavorare a distanza. La nostra responsabile amministrativa, per dirne una, sta a Teramo. Il concetto che sento ripetere più spesso da loro è il seguente: ‘Faccio il lavoro che desidero nel posto dove mi piace vivere’. Io lo trovo straordinario, come è eccezionale per un’azienda riuscire a trovare collaboratori o dipendenti che sono al 100 per cento compatibili con le sue esigenze, non solo sul profilo professionale, ma anche rispetto alla disponibilità di tempo. Nota, infine, che alcune di queste persone che lavorano per noi da mesi non le ho mai incontrate».

Non senti di perdere qualcosa anche tu come imprenditore? Come si fa a mantenere o coltivare una cultura aziendale se chi lavora sta a centinaia di chilometri di distanza? Come li controlli?

«Le criticità esistono, ma per fortuna ci sono anche modi per affrontarle. Servono una mentalità e prassi organizzative differenti, perché non è solo la cultura aziendale a cambiare. Intanto bisogna dare molta fiducia, ma in questo per fortuna eravamo abituati. Non ho mai marcato stretto i dipendenti neppure in ufficio, preferisco delegare molto e controllare il loro lavoro a scadenze predefinite. Poi c’è l’aspetto umano. Mancando lo spazio fisico condiviso i tuoi collaboratori o dipendenti non hanno un luogo per socializzare, scambiarsi informazioni, fare amicizia, anche litigare o scazzarsi. In Larin abbiamo deciso di fare due incontri l’anno in presenza. Sono due appuntamenti per fare il punto sull’azienda ma soprattutto per sopperire alla carenza di frequentazione ‘fisica’ quotidiana. Poi ci sono i singoli team, ad esempio quello che tiene i rapporti diretti con i clienti, che hanno deciso di incontrarsi con una certa frequenza. Due volte la settimana abbiamo il ‘Larin Cafè’, una riunione telematica a cui partecipa chi vuole e dedicata solo al rilassamento collettivo. Infine, se prima facevamo i colloqui individuali una volta l’anno, adesso li facciamo una volta al mese. Senza contare che i momenti per organizzare il lavoro sono aumentati al punto che oggi il 30 per cento del nostro tempo è dedicato alle riunioni».

Durante un Tedx a Cortina d’Ampezzo

Come si mantiene il senso di appartenenza e la fedeltà in queste condizioni?

«È un tema per tutti, per le grandi aziende riguarda la sicurezza, per le piccole come la nostra significa riuscire a convincere ogni giorno le persone che lavorano nel posto più adatto alle loro esigenze. Noi abbiamo aumentato il coinvolgimento di tutti sul lungo termine aziendale e la trasparenza. Per esempio, abbiamo attivato un cruscotto con indicatori quali ricavi, spese, numero clienti, soddisfazione o criticità dei clienti, tempi dei progetti. Queste informazioni sono accessibili a tutti indistintamente poiché aiutano a comprendere il percorso che stiamo facendo tutti insieme e di cui se pur con gradi diversi, ciascuno è responsabile. L’altro aspetto su cui stiamo lavorando è la formalizzazione dei progetti di crescita o di carriera individuali. Vuol dire che nel momento in cui accadono determinati eventi – aumento del fatturato, acquisizione di nuovi clienti – scattano dei benefici per il dipendente. In definitiva credo che i dipendenti con lo smart working possono godere delle stesse libertà dell’imprenditore senza averne però le incombenze».

La risposta positiva c’è stata anche dai clienti?

«All’inizio ne abbiamo perso qualcuno di locale. Erano abituati a venire in ufficio o a ricevere assistenza nelle loro sedi anche su servizi che potevano benissimo essere gestiti a distanza. Spiace, come sempre, perderli, ma il percorso che abbiamo avviato ci ha portato ad allargare la platea. Anche dal punto di vista geografico. Fino a due anni fa c’era una prevalenza di clienti da Triveneto e Lombardia. Non avere più delle basi geografiche, ci ha portato ad essere dei competitor in un ambiente in cui la presenza fisica è del tutto ininfluente, non dà una, dico una rassicurazione in più al cliente. Ma è un ambito più produttivo e più qualificante».

Foto di copertina di Erika Cuenca

TAG: imprese creative, Larin, smart working
CAT: Imprenditori, lavoro dipendente

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