Più che la cura, il Mose è parte della malattia di Venezia

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12 Ottobre 2020

Proprio mentre in tanti si spellavano le mani perché Venezia il giorno prima era finalmente rimasta all’asciutto per l’intervento del Mose, piazza San Marco era di nuovo sott’acqua. E così la Basilica. Lo stesso è accaduto anche il giorno successivo.

Seppur raccontato come l’esordio della diga mobile che, separando all’occorrenza la laguna dal mare, dovrebbe salvare Venezia dalle acque alte, quello andato in scena sabato 4 ottobre è stato infatti soltanto un test. Tuttavia, tanto è bastato per accendere un entusiasmo pericolosamente panglossiano nei molti disposti a dimenticare persino decenni di scandali nell’illusione di affermare che Venezia sia finalmente salva. Ebbene, Venezia purtroppo è tutt’altro che salva.

È la storia a dirci come il Mose, più che alla cura, somigli molto a un nuovo stadio della malattia che affligge la città. E basterebbe soltanto leggere i numeri, quelli forniti dalle autorità, per scoprire che l’acqua alta come la conosciamo oggi sia un fenomeno relativamente recente, la cui frequenza è progressivamente aumentata negli ultimi decenni per diverse ragioni, molte delle quali – al netto delle conseguenze dei cambiamenti climatici e della subsidenza naturale dei suoli – hanno a che fare con le attività umane che nel Novecento hanno stravolto l’equilibrio dell’intera area.

E ciò è tanto più grave poiché la stessa condizione di grazia nella quale la laguna è rimasta per secoli è una circostanza del tutto artificiale, la quale ha poco a che spartire con le regole della natura e molto con le decisioni delle autorità che se ne sono prese cura.

Lo si è fatto alzando barriere, curando i canali, costringendo il Brenta, il Piave, il Sile e persino il Po a cambiare più volte corso e foce; lo si è fatto realizzando opere idrauliche di proporzioni oggi inimmaginabili per impedire che, come per natura è destino delle lagune, anche quella di Venezia s’impaludasse e diventasse infine mare o terra. Ma non fu soltanto per questo: c’erano anche ottime ragioni economiche e politiche. Altro che Mose, insomma. Poi, però, qualcosa è cambiato.

Nell’Ottocento la città venne raggiunta dal ponte ferroviario e fu costretta a voltarsi verso terra, mentre veniva scalpellato via dai ponti, e ovunque ricacciato nell’oblio con violenza sacrilega, il leone marciano. Infine, venne il Novecento, si ruppe il compromesso tra l’umano e la natura che aveva consentito di governare le acque. Venezia allora inizia a morire perché non più città d’acqua, essendo oramai altrove gli interessi, e la laguna non più vita ma soltanto un’autostrada.

Si scavarono allora enormi canali abbassando drasticamente i fondali, provocando l’entrata in laguna di masse d’acqua imponenti. E tutta quest’acqua non trovava più spazio per distendersi poiché quello stesso spazio nel frattempo era stato occupato da grandi opere, industrie, infrastrutture, isole artificiali. Basti pensare all’immensità di Porto Marghera o al Tronchetto. Così, non sapendo dove distendersi, quell’acqua – ribadiamolo: al netto delle conseguenze dei cambiamenti climatici e della subsidenza naturale dei suoli – si alzava. Era costretta ad alzarsi, come mai prima d’allora.

Il Mose si inserisce in questa storia, regalando l’illusione di poter convivere con uno squilibrio che già da decenni sta uccidendo la città, e infine autorizzando l’idea che non ci sia limite. E infatti, col Mose ancora in fase sperimentale, già si pensa di scavare nuovi, profondi canali in laguna, forse per ricominciare daccapo l’intero giro e, chi lo sa, dover rimetter mano un giorno anche al Mose.

Il Mose insomma afferma una volontà di potenza novecentesca che non corrisponde alla capacità dell’uomo di governare i processi che ha innescato nei decenni appena trascorsi.

Ecco allora che c’è persino qualcosa di ferocemente beffardo nell’aver rivisto così presto San Marco sott’acqua. Capita poiché il Mose per il momento può essere alzato soltanto se il picco di marea è a 130 centimetri, sebbene San Marco e la Basilica vadano sott’acqua con molto meno. Peraltro, alzare la diga con un picco inferiore significherebbe doverla alzare molto spesso ma una separazione così netta tra laguna e mare sarebbe insostenibile: il ciclo della marea è il respiro della laguna, interromperlo significherebbe ucciderla. E poi c’è l’economia.

A fare il controcanto all’entusiasmo di molti, in quelle stesse ore nelle quali il Mose s’alzava non c’era tanto la voce degli ambientalisti quanto quella un po’ preoccupata dei commercianti e dei portuali. Con l’entrata in funzione del Mose, infatti, le attività del porto sono rimaste bloccate per ore. In prospettiva questo potrebbe rappresentare un grosso problema. O, forse, banalmente è soltanto il preludio all’annuncio di nuove grandi opere.

Tuttavia, la soluzione più logica resterebbe quella di riprendere il genere di cura abbandonato con la fine della Serenissima che, come si è visto, certamente non significa non fare grandi opere. Ci si dovrebbe però finalmente lasciare alle spalle l’illusione contemporanea e sterilmente sviluppista della politica del fare purché sia. E ci si dovrebbe render conto che una laguna non può sopravvivere alla manomissione dei fondali, all’esistenza di impianti industriali o al passaggio di navi pensate per il mare, poiché la laguna non è mare ma, appunto, laguna, e Venezia è acque basse e fondamenta fatte di legno. Ad averlo fatto prima, ad aver agito con meno arroganza, forse persino il Mose adesso sarebbe stato superfluo.

TAG: acqua alta, ambiente, cambiamenti climatici, grandi opere, laguna, MOSE, san marco, venezia
CAT: infrastrutture e grandi opere, Venezia

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