La seconda vita dell’Irlanda fra big di Internet, start-up e boutique

30 Luglio 2017

Una volta era la “Tigre celtica”. Poi la crisi nera e il rischio di bancarotta. Ora, per citare un azzeccato titolo dell’Economist, è la “Fenice celtica”. Stiamo parlando dell’Irlanda, economia di nemmeno 5 milioni di abitanti che l’anno scorso è cresciuta di oltre il 5 per cento. E che quest’anno, secondo le stime del FMI, dovrebbe aumentare del 3,5 per cento. «L’economia irlandese si è ripresa con grande successo, e a dispetto di una Brexit dalle prospettive difficili, continua a crescere rapidamente – dice a Stati Generali John FitzGerald, professore di economia al Trinity College di Dublino –. Il risultato è che, con tutta probabilità, l’economia tornerà alla piena occupazione nel 2018».

È dello stesso parere pure Giulio Buciuni, direttore del Master in Entrepreneurship presso la Trinity Business School. «Se guardiamo agli indicatori fondamentali l’economia irlandese sta andando molto bene. Dopo la crisi finanziaria e del settore immobiliare tra il 2009 e il 2010, l’economia irlandese ha registrato i tassi di crescita più alti dell’Europa occidentale». Il paese, assicurano dal canto loro vari espatriati italiani, trabocca di opportunità professionali. «Dublino è la nuova Londra» arriva a dire una studentessa. E anche se forse il paragone è un po’ azzardato («Dublin won’t be new London after Brexit», ha dichiarato l’anno scorso un importante politico locale), è vero che per i dublinesi il futuro non è mai stato così roseo.

La città è tutta un cantiere. Le eleganti e costose boutique in Exchequer Street fanno affari d’oro, attirando l’attenzione anche delle star di Hollywood. Le aziende investono, e pagano bene i loro dipendenti più bravi: anche il doppio di quanto può prendere un laureato a Roma o Milano. Certo, i livelli di professionalità richiesti sono altissimi. E lo stile di management è anglosassone, con ritmi di lavoro «molto intensi», assicura un ingegnere siciliano a Dublino da un paio di anni. E questo è vero soprattutto nel settore tecnologico, pilastro del boom della Fenice celtica.

«La forza dell’Irlanda risiede nella presenza nel paese delle principali multinazionali dell’IT. Si tratta peraltro di una tradizione iniziata molti anni fa, con Apple a Cork e Dell a Limerick – sottolinea Buciuni – Oggi tutte le principali aziende informatiche hanno la sede europea (e in alcuni casi anche il quartier generale) a Dublino». C’è da dire che l’Irlanda fa davvero di tutto per attirare i colossi della tecnologia. Oltre a una fiscalità a dir poco vantaggiosa, che gli ha attirato gli strali di Bruxelles (una cifra su tutte: il prelievo sugli utili, nell’isola, è pari al 12,5%, contro il 20% del Regno Unito e il 31,4% in Italia), l’Irlanda vanta uno dei costi del lavoro più bassi dell’Europa settentrionale (30 euro orari, rispetto per esempio ai 39,1 belgi e ai 51,2 norvegesi), e una delle popolazioni più giovani, prolifiche e preparate del continente. Ancora, nel paese hanno sede atenei e centri di ricerca d’eccellenza come l’Irish Centre for High-End Computing, l’Hamilton Institute e il Digital Enterprise Research Institute.

Oggi l’Irlanda è l’isola più amata dalla Silicon Valley. Non a caso a Dublino ci sono i Silicon Docks, dove lavorano 7mila professionisti dell’IT, inclusi i tecnologi del quartier generale EU di Google, e del quartier generale di Facebook. Ma il paese è anche un buon ecosistema per le startup. Nella mappa dei maggiori centri di venture capitals del mondo realizzata dal Martin Prosperity Institute, Dublino è ben più visibile di Milano, Madrid, Barcellona o Roma. In realtà la città di James Joyce e Samuel Beckett non solo non teme concorrenti nell’“Europa periferica”, ma regge bene il confronto con centri del manifatturiero avanzato come Monaco e Stoccarda. Undicesima nella graduatoria europea dell’istituto, per investimenti VC precede metropoli hi-tech quali Helsinki, San Pietroburgo, Francoforte, Bruxelles e Ginevra.

«L’Irlanda è un posto fantastico per lanciare una start-up. Ricevi un buon supporto da parte dello Stato, specie se la tua azienda esporta (come nel nostro caso)», spiega Paul Canavan di InvizBox, start-up specializzata nella protezione della privacy e della sicurezza online delle persone. Certo, non sono tutte rose e fiori. «Penso che sia probabilmente più facile lanciare un’azienda da un miliardo di dollari negli Stati Uniti perché dopo le fasi iniziali, l’accesso ai capitali è migliore lì». Interessante anche il punto di vista di Darya Yegorina, CEO della start-up CleverBooks, attiva nel settore dell’istruzione attraverso un mix di strumenti tradizionali e innovativi (per esempio, la realtà aumentata).

«L’Irlanda è un posto grandioso per una start-up, grazie a una comunità locale davvero vitale, a un ambiente hi-tech e al supporto che si riceve – nota Yegorina –. Non ci sono pecche qui, a meno che una start-up non cerchi di vendere il suo prodotto solo a livello nazionale piuttosto che globalmente, perché l’Irlanda è un mercato piuttosto piccolo. Ma si ottiene, per fortuna, molto aiuto a espandersi in Europa e internazionalmente».

Insomma, la prosperità della Fenice celtica è assai collegata alle condizioni dell’economia globale. E a cosa fanno gli altri paesi. Come spiega bene Buciuni, «la forza dell’economia del paese è paradossalmente un pericolo nel medio-lungo periodo. Le multinazionali dell’IT sono giunte qui principalmente grazie agli incentivi fiscali, e sono definite, in gergo, “footloose” (spensierate): sono aziende, cioè, che tra qualche anno potrebbero andare altrove. Il rischio è dunque legato a un’economia poco differenziata, e sbilanciata a favore di un settore con pochi player globali».

Di recente l’ascesa a Taoiseach (primo ministro) di Leo Varadkar, leader thatcheriano figlio di un immigrato indiano e dichiaratamente gay, ha fatto sognare l’opinione pubblica di mezzo Occidente. «Un’isola al centro del mondo», ha titolato il Time, dedicando una copertina al giovane politico. Ma il mondo non è un luogo facile, men che meno al giorno d’oggi. «Il maggior rischio esterno per l’economia irlandese si chiama Brexit – osserva FitzGerald –. A causa del caotico processo decisionale nel Regno Unito è difficile valutare tutte le implicazioni della Brexit. In ogni caso, essa rappresenterà quasi di sicuro un fenomeno negativo per l’Irlanda nei primi anni del prossimo decennio».

 

 

In copertina: vista aerea di St Stephen’s Green, opera di Dronepicr – CC

 

TAG: Brexit, crisi, dublino, economia, hightech, information technology, innovazione, Irlanda, venture capitals
CAT: Innovazione, Startup

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