Gli italiani come lei

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15 Dicembre 2018

Elizabeth è una ventottenne peruviana che, poche settimane fa, ha scritto una lettera al ministro Salvini per chiedergli le ragioni del suo accanimento contro gli immigrati (tutti, dal primo all’ultimo arrivato): anche contro di lei, venuta in Italia da bambina, cresciuta qui e divenuta ormai una cittadina perfettamente regolare, contribuente in regola, che vuole solo vedersi riconoscere quella cittadinanza che sente di essersi sudata e guadagnata.

La risposta del ministro dell’Interno è stata benevolmente generica e non priva dell’ennesima stoccata polemica verso gli immigrati: la responsabilità delle insopportabili lungaggini burocratiche per l’ottenimento della cittadinanza sarebbe, manco a dirlo, dei “furbetti aspiranti cittadini italiani che penalizzano gli amici come te”.  Per questo Elizabeth ha deciso di scrivere una nuova lettera, stavolta indirizzata agli italiani come lei: quei ragazzi di origine straniera, cresciuti (e talvolta nati) nel nostro Paese, che sono costretti ad attendere anni per diventare nostri concittadini a tutti gli effetti.

Elizabeth racconta la sua storia con grande semplicità, soffermandosi su quella che chiama la trappola: la lunga e costosa procedura per l’acquisizione della cittadinanza, che impedisce a chi ne presenta richiesta di recarsi all’estero almeno per i successivi due anni (periodo la cui durata è appena stata raddoppiata dal decreto Salvini); peraltro dopo averne già trascorsi almeno dieci senza allontanarsi dal Paese, spesso neppure per brevi periodi (a causa delle complicazioni burocratiche dovute alla mancanza di un passaporto italiano). Si tratta di una limitazione alla propria libertà di circolazione che sottrae ai giovani di origine straniera la possibilità di studiare e lavorare all’estero, malgrado questa sia spesso la loro vocazione proprio per il percorso di vita che hanno avuto; ma, soprattutto, è un’esperienza di incertezza e di frustrazione che può generare smarrimento e senso di abbandono.

Riflettendo sulla sua storia personale, così strettamente legata alle vicende politiche del Paese di cui si sente parte, Elizabeth mette a nudo le tante contraddizioni della nostra società nei confronti degli immigrati di seconda generazione: la diffidenza verso chi ha tratti somatici diversi, anche se è pienamente integrato; la fissazione per la difesa della nostra identità, che viene ridotta sommariamente alla nazionalità e non viene riconosciuta in chi la vive insieme a un’identità diversa, quella di origine; l’ipocrisia di avere portato la legge sullo ius soli a un passo dall’approvazione nella scorsa legislatura, abbandonandola però proprio nell’ultimo tratto del percorso; infine la scelta, cinicamente autolesionista, di creare ostacoli sempre più pesanti a chi vuole semplicemente vedersi qualificato per ciò che è, un membro della nostra comunità nazionale.

Questo mancato riconoscimento è la negazione di un diritto, che Elizabeth attribuisce a una ragione evidente: la volontà di mantenere le distanze, di scavare un solco tra noi e loro (cioè tra chi è autoctono e chi non lo è) e di tenere questi ultimi nella perenne condizione di immigratiQuesta contrapposizione è sbagliata perché crea divisioni e quindi pericoli, in una società che ha invece sempre più bisogno di integrazione: e potrebbe realizzarla proprio ricorrendo ai ragazzi come Elizabeth, perché sono portatori di una terza cultura che, essendo a metà tra quella di origine e quella italiana, può funzionare da “ponte”; ma la convivenza tra diverse identità, che questi giovani vivono innanzitutto dentro sé stessi, è ciò che purtroppo molti italiani (e anche molti stranieri immigrati) non vogliono accettare.

Per questo Elizabeth si rivolge ai suoi “compagni di sventura”, incitandoli a raccontare la loro storia e a organizzarsi per rappresentare le loro ragioni, per farsi sentire e offrire il proprio punto di vista. Il suo scopo non è solo ottenere un diritto per sé, ma contribuire a costruire una società più giusta e più rispettosa della nostra Costituzione, che dà alla Repubblica il compito primario di rimuovere gli ostacoli che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art.3); una società in cui potranno riconoscersi anche i tantissimi italiani che ogni anno si trasferiscono all’estero per motivi di studio o di lavoro e che, quando fanno ritorno, si sono arricchiti di un nuovo pezzetto della loro identità, proprio come è accaduto all’autrice.

In un momento in cui l’immigrazione viene dipinta (e spesso, purtroppo, percepita) come la minaccia principale al benessere del nostro Paese, il piccolo pamphlet di Elizabeth è un importante spunto di riflessione, commovente e per questo più efficace di tante astratte dichiarazioni di princìpi: attraverso lo sguardo di un’aspirante nuova italiana possiamo vedere lucidamente le nostre paure, le nostre vigliaccherie, ma anche la grandezza di cui potremmo essere capaci, se solo sapessimo trovarne il coraggio.

Elizabeth Arquinigo Pardo, Lettera agli italiani come me, ed. People (l’autrice presenterà il libro martedì 20 a Milano)

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2 Commenti

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  1. raffaella 5 anni fa

    Grazie della recensione. Acquisterò.

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  2. dionysos41 5 anni fa

    Come spesso accade, i fatti parlano più delle parole.

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